Non è facile scandire l’operato della Corte mediante periodizzazioni cronologiche. Tra i vari tentativi, comunque, quello più noto distingue tra i periodi di attivismo della Corte, in cui essa ha cercato di espandersi in direzione delle sfere proprie del potere politico e giudiziario, ed i periodi di self restraint, in cui la corte ha limitato la sua azione entro confini precisi.

Occorre tener presenti tre fasi storiche per giungere ad un giudizio sul ruolo della Corte nella nostra forma di governo:

  • fase I (fine anni ’50 inizio anni ’70): promozione delle riforme. In questa prima fase l’obiettivo della Corte è quello di consolidare il proprio ruolo, autolegittimandosi e ampliandole le proprie competenze e i propri strumenti. Il punto di partenza di questa fase è la sent. n. 1 del 1956, la quale:
    • amplia la competenza della Corte alle leggi anteriori alla Costituzione e supera la distinzione tra norme programmatiche e norme precettive;
    • afferma il controllo di costituzionalità sugli interna corporis del Parlamento e amplia la sfera dei soggetti in grado di sollevare questioni dinanzi alla Corte. Ad essa viene riconosciuto anche il potere di sollevare le questioni dinanzi a sé stessa, in modo tale da uscire dalla gabbia della pronuncia solo su domanda;
    • individua i principi supremi con valenza supercostituzionale, parametro di giudizio anche per le leggi costituzionali;
    • arricchisce lo strumentario connesso al processo costituzionale realizzato mediante le sentenze interpretative: si passa dalle mere interpretative di rigetto alle interpretative di accoglimento, fino alle sentenze manipolative, sostitutive e additive;
    • fase II (fino alla metà degli anni ’80): mediazione nei conflitti sociali e politici. Completato lo svecchiamento della legislazione fascista, la Corte si trova a dover entrare nel vivo delle scelte politiche. La Corte viene quindi ad assumere il ruolo di mediatrice dei conflitti sociali e politici, un ruolo particolarmente importante a partire dal 1972, anno in cui inizia ad esercitare la competenza sull’ammissibilità del referendumabrogativo. Il comportamento della Corte si ispira ad una linea di equilibrio nei confronti del potere giudiziario e politico:
      • nei confronti del potere giudiziario, ridotto il valore delle sentenze interpretative di rigetto dato il rifiuto della Cassazione ad accettarle come vincolanti, la ricerca dei punti di equilibrio tende a svilupparsi attraverso due vicende fondamentali, che comportano un arretramento della Corte rispetto ad alcune posizioni iniziali:
        • interpretazione estesa del concetto di rilevanza: la Corte tende a evitare un esame approfondito della rilevanza e ad accettare la questione così come posta dal giudice a quo;
        • valorizzazione del concetto di diritto vivente riferita all’interpretazione giurisprudenziale, che viene assunto come premessa per la valutazione della costituzionalità di una legge;
  • nei confronti del potere legislativo, dato il declino della tecnica dei moniti al legislatore, la Corte si mette alla ricerca di nuovi strumenti maggiormente cogenti, ma si scontra con una forte resistenza del Parlamento. Essa finisce quindi per ripiegare su linee riduttive (es. limitazione nell’applicazione del parametro di ragionevolezza della legge, cautela nell’uso delle sentenze additive), incentrate sul massimo rispetto del potere discrezionale del Parlamento: la Corte può ritenere irragionevole una legge, ma le questioni che potrebbero risolversi con una pronuncia additiva sono dichiarate inammissibile quando esistono più soluzioni possibili.

In tale ambito si inserisce anche la tecnica giurisprudenziale dell’ultimo anello, ossia del monito al legislatore collegato ad una dichiarazione di legittimità precaria della legge (o di illegittimità differita): la Corte non caduca la norma, ma avverte che ad una prossima occasione, qualora non venga modificata, essa cadrà. La giustificazione di tale tecnica può essere rinvenuta nel concetto di illegittimità sopravvenuta: norme che non sono illegittime alla nascita, possono diventarlo con l’evoluzione del sistema;

  • fase III (ancora da concludere): efficienza operativa. In questa terza fase si sviluppa la convinzione che un organo di giustizia costituzionale che non decide in tempi rapidi risulta essere inutile: il ritardo nella decisione nell’ambito della giustizia costituzionale, infatti, annulla la funzione della stessa, dal momento il tempo della pronuncia è una delle componenti più rilevanti della funzione della giustizia costituzionale. Tale convinzione ha portato ad una riforma del regolamento interno della Corte, che ha aperto le porte ad una risoluzione in camera di consiglio non solo alle cause dove non ci sono parti costituite o a quelle manifestamente infondate, ma anche a quelle suscettibili di concludersi con una pronuncia di manifesta inammissibilità. Si è peraltro assistito ad una modifica del sistema di sottoscrizione delle sentenze: non vengono più raccolte le firme di tutti i giudici, ma solo di quella del relatore.
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