La prima categoria di atti è quella in cui la non conformità alla correttezza professionale dipende dal fatto che si sfrutta l’affermazione sul mercato di altra impresa concorrente, tendendo a confondersi con questa sia con l’uso di nomi o segni distintivi da essa legittimamente usati, sia con l’imitazione servile dei suoi prodotti e con il compimento di atti comunque in grado di crear confusione con i suoi prodotti e in genere con le sue attività (concorrenza sleale per confusione). Un caso è la cosiddetta “imitazione servile dei prodotti” cioè la riproduzione pedissequa dei prodotti altrui sia sostanzialmente che formalmente: in un sistema concorrenziale è però tipico la possibilità di usare beni e servizi omogenei con quelli altrui in concorrenza. Perché vi sia concorrenza sleale occorre inoltre utilizzare quegli elementi che intrinsecamente possono portare una vera confusione. Seconda categoria: in questo caso la non conformità alla correttezza professionale dipende dalla diffusione di notizie o apprezzamenti sull’attività di un concorrente, atti a determinarne il discredito (concorrenza sleale per denigrazione). Una terza categoria è quella di atti in cui l’imprenditore di appropria dei pregi dei prodotti o dell’impresa concorrente (concorrenza sleale per sottrazione). Il 2598 prevede che i principi di questo tipo soccorrono quando non ci sia violazione del diritto alla ditta, all’insegna, al marchio o violazione del diritto del brevetto: sono quindi un completamento della tutela dell’imprenditore. La tutela è però accordata quando i segni distintivi, rispetto a cui l’imprenditore non ha un diritto di esclusività, siano da lui legittimamente usati: con ciò si esclude che la tutela sia accordata a chi usa segni distintivi altrui o confondibili con quelli altrui, compiendo a sua volta una concorrenza sleale di secondo grado.

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