Sulla falsariga del Trattato CEE, la l. 287/1990 dichiara nulle le intese tra imprese che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza.

Ci si è chiesto se le pratiche monopolistiche contro le quali la legge è stata adottata, in quanto foriere di effetti dannosi per coloro che partecipano al mercato in posizione contrapposta alle imprese autrici delle pratiche, possano dare àdito ad un’azione di risarcimento del danno da parte di chiunque, nella traiettoria che giunge fino al consumatore finale, tale danno abbia subìto.

L’indiscutibilità del danno subìto in particolare dal consumatore finale, costretto a pagare un prezzo maggiorato rispetto a quello che gli sarebbe toccato in regime di libera concorrenza, ha potuto trasformarsi agevolmente in ingiustizia, ponendo la questione della sua risarcibilità.

La disciplina è dichiaratamente rinvolta alla concorrenza, che come tale è categoria dell’impresa.

In maniera altrettanto indubbia, però, la concorrenza ha un beneficiario ultimo che è il consumatore.

Il problema è se alla posizione di quest’ultimo l’ordinamento abbia effettivamente dato rilevanza specifica nella disciplina in questione.

La l. 287/1990 al 33.2 fa parola di azioni di nullità e di risarcimento del danno.

Da un lato però la funzione precipua di tale norma è di individuare il giudice competente, dall’altro lato una competenza giurisdizionale presuppone che vi siano azioni da esercitare in giudizio.

La norma va interpretata nel senso che, così come per la nullità, la competenza che essa attribuisce riguardo alle azioni di risarcimento del danno si riferisce ai soggetti le cui condotte la legge intende regolare per il danno che a taluno di essi possa derivare dalla violazione della disciplina medesima contenuta nella legge.

Il problema è allora come possano configurarsi queste azioni e in capo a chi.

Di recente Cass. 17475/2002 aveva, correttamente, ritenuto che a tutela del consumatore finale, in esito alle intese vietate dalla l. 287/1990, può porsi una questione di responsabilità civile di diritto comune, relativamente alla quale il 33.2 deve considerarsi ininfluente.

Nel caso della l. 287/1990, la responsabilità che ne può derivare riguarda solo i soggetti ai quali la legge si riferisce: da un lato le imprese autrici delle intese restrittive della libertà di concorrenza (art. 2), dall’altro i soggetti attivi e passivi dell’abuso di posizione dominante (art. 3).

Ma le Sezioni unite (2207/2005) rimproverano a Cass. 17475/2002 di non aver compreso che la legge antitrust non è la legge degli imprenditori soltanto, ma è la legge dei soggetti del mercato, ovvero di chiunque abbia interesse […] alla conservazione del suo carattere competitivo al punto da poter allegare uno specifico pregiudizio conseguente alla rottura o alla diminuzione di tale carattere, concludendo per l’applicabilità del 33 alle azioni risarcitorie proposte dai consumatori nei confronti di imprese che, autrici di intese anticoncorrenziali, ne abbiano riversato gli esiti nei contratti stipulati coi medesimi consumatori.

È vero che la disciplina della concorrenza in generale è volta a far sì che questa si svolga nel migliore dei modi, cosa alla quale non possono non avere interesse anche i consumatori, ma non è giusto implicarne che la l. 287/1990 includa specificamente e direttamente questi ultimi tra i soggetti ai quali la legge si applica, investendoli di poteri e doveri, perché l’ambito di applicazione della legge non sembra consentire tale confusione, nel momento in cui disciplina condotte di impresa in relazione con altre o ad altre imprese.

La contemplazione da parte del 3 l. 287/1990 dei consumatori come possibili soggetti passivi di un abuso di posizione va visto come l’indicazione dell’obiettivo finale, non come l’inclusione degli stessi nell’arco di applicazione della legge: si tratta del fine ultimo.

Secondo Cass. 17475/2002 non può farsi discendere dal solo fatto in sé dell’intesa vietata uno specifico diritto soggettivo vantato dal consumatore finale.

A noi pare che tale conclusione si dovesse condividere.

Il danno subìto dal consumatore mette certamente in luce un interesse al risarcimento: perché si traduca in un’azione in giudizio esso deve però diventare un interesse giuridicamente rilevante.

Cass. 17475/2002 assume che tale esso diventerebbe qualora lo si potesse individuare in un diritto soggettivo; e le si può obiettare l’angustia dell’identificare nella lesione di quest’ultimo la qualificazione di ingiustizia richiesta dal 2043 (Risarcimento per fatto illecito) perché il danno diventi risarcibile, dopo essere andata già oltre il diritto soggettivo almeno da quando ha ritenuto risarcibile il danno da violazione di un interesse legittimo (Cass. 500/1999 ha addirittura qualificato l’ingiustizia clausola generale, con questo commettendo direttamente al giudice la valutazione di meritevolezza dell’interesse offeso).

Ma in diritto privato tale figura non ha giustificazione dogmatica, sicché il problema alla nostra attenzione non si risolve spostando l’indice di rilevanza dal diritto soggettivo ad un preteso interesse legittimo che un soggetto privato potrebbe far valere nei confronti di altri privati.

{È uno dei tanti argomenti in favore del riconoscimento dell’azione risarcitoria in capo al consumatore finale svolti da Enrico Scoditti, giudice presso il tribunale di Bari, in nota a Cass. 17475/2002}.

{L’interesse al corretto ed efficace funzionamento del mercato e dei meccanismi concorrenziali va del resto concettualmente distinto dalla mera finalità di protezione del contraente debole}.

Derivare un diritto soggettivo o altra situazione giuridica rilevante dal divieto delle intese significa operare un salto tra una specie ed un’altra di situazioni soggettive.

{Alberto Toffoletto parla di un diritto attribuito dalla normativa antitrust a favore di tutti gli operatori ad ottenere di pagare un prezzo che in nessuna situazione possa essere considerato eccessivo o non equo.

Ora, usare in maniera seria il termine “operatori” significa accondiscendere all’idea che la normativa antitrust si applica ai rapporti tra imprese e non ai consumatori: invero linguisticamente il termine si riferisce di preferenza a soggetti professionali.

Né dire che la storia del diritto antitrust depone in favore di un interesse dei consumatori che si è voluto difendere si trasforma nella dimostrazione che la disciplina così come adottata dal legislatore abbia reso giuridicamente rilevante tale interesse mediante l’attribuzione di situazioni giuridiche soggettive.

Il 3 l. 287/1990, che disciplina la fattispecie di abuso di posizione dominante, vieta all’impresa che in tale posizione si trovi di imporre direttamente o indirettamente prezzi di acquisto, di vendita o altre condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose, ma facendo parola di condizioni contrattuali ha chiaramente indicato come àmbito di riferimento ad essa proprio il contratto e perciò come tutelata dalla norma la controparte dell’impresa dominante, non il consumatore come tale.

Da questa ipotesi particolare non si può ricavare una generale posizione soggettiva di vantaggio attribuita a tutti gli operatori a che venga loro praticato un prezzo concorrenziale, dal quale si evince poi l’esistenza di un corrispondente dovere giuridico, posto a carico di tutti gli operatori economici, di praticare alle proprie controparti contrattuali prezzi e, più in generale, condizioni concorrenziali: non si vede come dal diritto che si abbia nei confronti di taluno possa derivare un obbligo nei confronti di tal altro}.

Il divieto è l’assenza qualificata di potere in capo a colui nei confronti del quale esso è formulato: coerentemente la conseguenza prevista dalla legge è la nullità dell’atto posto in essere in assenza di potere.

La nullità, però, non può essere trasformata in un potere sostanziale, attribuito a soggetti altri da quelli su cui grava il divieto, come sarebbe la situazione soggettiva necessaria a fondare un’azione risarcitoria in capo al consumatore.

{Non sembra tenere conto di questo Roberto Pardolesi, quando si accontenta di ragionare così: Se è vero […] che qualunque interesse, in qualche modo riconosciuto rilevante dall’ordinamento, integra – in quanto violato – gli estremi potenziali del danno ingiusto, non si vede perché l’utente finale, direttamente pregiudicato […] per effetto della collusione a monte, non potrebbe “vendicare” le proprie ragioni sul piano risarcitorio.

Si può accettare in astratto che il contratto nullo possa diventare mero elemento di una fattispecie di responsabilità aquiliana, ma poi rimane da vedere se esso sia compatibile con la disciplina della responsabilità che si intende applicare.

Giuseppe Guizzi conclude nel senso di un interesse dei consumatori alla concorrenza che giustificherebbe un’azione aquiliana per i danni derivanti da contratti a valle di intese anticoncorrenziali.

Ma se con questo si intende fare applicazione del 33 l. 287/1990, andiamo oltre i confini propri di tale legge, la quale sembra fissamente dedicata ai rapporti tra imprese; se si intende applicare direttamente il 2043 c.c. (Risarcimento per fatto illecito), il problema non è più l’illecito anticoncorrenziale come tale, ma un danno del quale, come di qualsiasi altro, ci si domandi se sia risarcibile oppure no.

Questa seconda mi sembra l’alternativa seria, necessitata dal fatto che applicare il 33 l. 287/1990 in base alla prima alternativa conduce all’implicazione insostenibile (ma non per Cass. 2207/2005) che una domanda di ordinario risarcimento del danno sarebbe limitata ad un solo grado di giudizio di merito.

Seguendo quella che abbiamo indicata come unica alternativa possibile, peraltro, è certamente corretto domandarsi dove stia allora l’ingiustizia e cercare di individuare la situazione soggettiva alla cui violazione riferirla; ma il diritto alla correttezza nelle relazioni contrattuali appare ictu oculi fuori campo quando si parla di responsabilità extracontrattuale}.

L’unico potere che la nullità dell’atto attribuisce è quello di farla dichiarare.

In capo al consumatore finale perciò non può dirsi instaurata la situazione soggettiva necessaria a comporre la fattispecie di responsabilità extracontrattuale sotto il profilo dell’ingiustizia del danno prevista dal 2043.

In contrario è stato notato che Cass. 500/1999 ha ormai fatto propria la tesi che l’ingiustizia costituisca una clausola generale, onde il ritrovamento di una situazione soggettiva non sarebbe necessario.

Ma a prescindere dal fatto che già Stefano Rodotà, teorico originario dell’ingiustizia come clausola generale, ipotizzava la necessità di una situazione giuridica rilevante, nell’offesa della quale l’ingiustizia dovrebbe in ogni caso consistere, la Cassazione tanto poco crede alla legittimità di una clausola generale che ogni volta ipotizza un diritto a vestimento di un interesse ritenuto meritevole della tutela risarcitoria.

Cass. 9384/2003 era risultata del tutto scevra dalle preoccupazioni argomentative ora illustrate.

{Invero anche Mario Libertini ha sostenuto che se un soggetto è vittima di un’intesa illecita per violazione delle norme antitrust, che si riverbera negativamente sul suo patrimonio, è legittimato ad esercitare un’azione di responsabilità extracontrattuale; benché ritenuta dall’autore citato una prima conclusione, accettabile in via generale, essa meriterebbe di essere in qualche modo argomentata.

L’illiceità può solo rifluire nell’oggetto del contratto derivato, facendolo diventare a sua volta illecito.

Ed il richiamo al caso Courage non costituisce un precedente pertinente, come diremo di seguito}.

Cass. 9384/2003 reputa di potere dedurre, dal 33.2 l. 287/1990, che se l’accordo antitrust può essere dichiarato nullo, i contratti scaturiti in dipendenza di tale accordo o intesa mantengono la loro validità e possono dar luogo solo ad azioni di risarcimento del danno nei confronti dei distributori da parte degli utenti.

Essendo puramente assiomatica, tale affermazione risultava priva di fondamento.

Ma alcuni commentatori avevano creduto di ricavarne un mutamento di indirizzo della Cassazione.

{Così per es. Stefano Bastianon, nella nota a Cass. 9384/2003, lavora di fantasia quando dice che anche in un’ottica imprenditorialmente orientata, il consumatore deve essere annoverato a pieno titolo tra i soggetti beneficiari della normativa antitrust, onde se non si vorrà dichiarare la nullità dei contratti a valle stipulati coi consumatori da un’impresa partecipe delle intese vietate, non si potrà non ritenere l’esistenza di una tutela risarcitoria sempre che ovviamente si tratti di un pregiudizio ricollegabile all’illecito anticoncorrenziale sotto il profilo sia della causalità materiale, sia di quella giuridica.

L’argomento causale in questa sede è del tutto fuori quadro.

Quanto alla causalità materiale, perché questa presuppone un evento in senso naturalistico, che non ricorre nella specie poiché il danno di cui è questione è un danno meramente patrimoniale.

Quanto alla causalità giuridica, quella per intenderci del 1223 (Risarcimento del danno), perché essa attiene alla determinazione del danno risarcibile e presuppone perciò che un danno risarcibile possa esserci: cosa che a propria volta esige che un illecito sia accertato, che cioè, come dice Cass. 17475/2002, si possa parlare di lesione di una situazione giuridicamente tutelata e di una condotta antigiuridica}.

Il contrasto giurisprudenziale sfociò nell’intervento finale delle Sezioni unite (2207/2005).

Se si ritenga che pure il consumatore sia beneficiario del divieto, non si vede come possa affermarsi la validità del contratto derivato, mediante il quale pervengono al consumatore gli effetti dell’intesa anticoncorrenziale nulla.

Vedremo che proprio tale pretesa validità è un’invalidità, dalla quale però allora direttamente va fatta derivare la tutela del consumatore.

I destinatari della disciplina di tutela della concorrenza e del mercato sono le imprese.

Bisogna individuare le tutele ricavabili dal diritto civile comune in favore dei soggetti (che non sono necessariamente consumatori: può trattarsi anche di intermediari che a loro volta stipulano coi consumatori) che stipulano contratti con gli autori di attività e negozi vietati alle imprese dalla l. 287/1990.

Tra l’orientamento espresso da Cass. 17475/2002 che riputava non sussistere la situazione soggettiva alla quale appuntare l’ingiustizia del danno necessaria a comporre la fattispecie di responsabilità aquiliana e la tesi della nullità del contratto “a valle” che dà attuazione alle intese anticoncorrenziali, le Sezioni unite 2207/2005 affermano che la tutela del consumatore che tale contratto abbia stipulato è di tipo risarcitorio in quanto nasce da un fatto illecito, ma non si preoccupano di individuare la situazione soggettiva che dovrebbe risultare violata.

Sembrano ritenere che tale illiceità trovi fondamento nella nullità del contratto “a valle”.

Enrico Scoditti ha ipotizzato che la situazione soggettiva che dovrebbe risultare violata nella specie potrebbe essere quella di cui all’1 l. 281/1998 (Finalità ed oggetto della legge), in particolare il diritto alla correttezza, trasparenza ed equità nei rapporti contrattuali concernenti beni e servizi.

Ma far valere, ai fini dell’ingiustizia del danno, un diritto alla correttezza come situazione soggettiva la cui lesione integrerebbe quella, significa trascorrere dal piano contrattuale a quello extracontrattuale.

Come chiarisce la stessa l. 281/1998 [Disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti], Ai consumatori ed agli utenti sono riconosciuti come fondamentali i diritti […] alla correttezza, trasparenza ed equità [nei rapporti contrattuali] concernenti beni e servizi.

Si tratta infatti, da un lato, degli obblighi di buona fede (correttezza e trasparenza) che intercorrono tra le parti di rapporti obbligatori, non tra soggetti in ipotesi estranei come nel caso in cui si faccia questione di responsabilità aquiliana; in secondo luogo, del non significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi (equità) derivanti dal contratto concluso tra professionista e consumatore, secondo la previsione contenuta nel 1469-bis (Clausole vessatorie nel contratto tra professionista e consumatore) comma I.

Nonostante risulti di per sé fuori quadro il richiamo a questo profilo, per eterogenesi dei fini, esso evidenzia che il piano sul quale si pone la questione della tutela del consumatore finale è quello contrattuale.

Su tale piano però gli autori delle intese anticoncorrenziali si pongono il più delle volte come terzi rispetto al consumatore, poiché questi stipula il suo contratto con un intermediario, esso controparte di una delle imprese che alle intese hanno dato vita.

E tra il consumatore e l’intermediario il contratto non è nemmeno iniquo perché l’intermediario ha già pagato al proprio dante causa quanto riversa sul prezzo praticato al consumatore.

Esso dà àdito ad un rimedio per il consumatore, ma non si tratta della responsabilità civile.

{Il riscontro comparatistico non è univoco: mentre negli Stati Uniti la Corte suprema, in Reiter v. Sonotone Corp., ha affermato l’applicabilità del Clayton Act, il quale prevede il risarcimento del danno derivante da antitrust violations, anche per il consumatore injured in his business or property, diverso è l’orientamento nell’ordinamento tedesco: qui il danno derivante da violazioni della disciplina antitrust viene riputato rilevare esclusivamente tra i soggetti attivi della concorrenza, cioè in funzione di tutela delle imprese}.

Ciò significa infatti un presupporre in capo all’intermediario un obbligo di protezione, che in effetti viene ipotizzato in dottrina da chi ne afferma la responsabilità, ma che appare privo di fondamento: secondo Alberto Toffoletto esso trarrebbe origine dal maggiore e più qualificato flusso di informazioni di cui l’intermediario, in quanto soggetto professionale, può disporre.

Più seria è la strada della nullità.

Nel caso in cui l’intesa determini il prezzo o contenga delle indicazioni di prezzo o adotti parametri funzionali alla determinazione del prezzo, il divieto contenuto nel 2.2 (Sono vietate le intese tra imprese che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante […]) rende illecita la clausola che lo viola e perciò il prezzo che ne costituisca il contenuto.

Si tratta di nullità per violazione di una precisa norma imperativa (non di un principio di ordine pubblico economico: ha già provveduto il legislatore a concretizzare il principio negli artt. 2 e 3 l. 287/1990).

{Antonio Albanese fonda la nullità degli accordi che realizzano l’abuso di posizione dominante sulla regola di chiusura del 1418.1 (Il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente).

Anche Angelo Bertolotti parla di violazione dell’ordine pubblico economico come fonte della nullità}.

In questi termini e nella misura in cui è strumento di attuazione dell’intesa vietata, il prezzo è illecito e costituisce oggetto illecito del contratto, rendendolo nullo per la parte corrispondente.

{Mario Libertini invece ritiene lecito l’oggetto del contratto derivato.

Se però è vero, come dice Vincenzo Roppo, che illecito è l’oggetto anche quando la prestazione, pur non vietata in sé, è direttamente strumentale a un risultato vietato, tale è pure l’oggetto del contratto derivato nella parte in cui debba riputarsi esecutivo dell’intesa o della pratica vietata}.

Anche il contratto a valle, a sua volta contenente un prezzo conseguente a quello determinato a monte, risultando pur esso in contrasto con norma imperativa, per la stessa ragione e per la misura correlativa è a sua volta nullo.

{Identico esito si rivela conseguibile alternativamente, ritenendo la norma del 2 l. 287/1990 applicabile estensivamente a stipulazioni conseguenti o derivate dall’intesa contraria alla concorrenza}.

Si tratta di riduzione automatica della clausola nulla, secondo un principio di conservazione del contratto che l’ordinamento osserva quando reputa prevalente l’interesse alla sopravvivenza del contratto rispetto a quello di sanzionarne l’illiceità.

Questa nullità non consente però di pensare alla sostituzione automatica di una clausola nulla con una valida.

{Come ritiene invece Alberto Toffoletto.

Trarre criterio dalle norme che vietano comportamenti anticoncorrenziali per la confezione di clausole sostitutive contenenti il prezzo concorrenziale argomentando dal modello applicativo che, facendo capo al 36 Cost., ha consentito a suo tempo alla giurisprudenza di adottare una retribuzione diversa da quella pattuìta dalle parti e non conforme al dettato della norma costituzionale, significa passare sopra alla diversità radicale tra i due tipi di norme in gioco.

Mentre gli artt. 2 e 3 l. 287/1990 si limitano ad irrogare (espressamente o meno) la nullità delle intese o del singolo contratto, il 36 Cost. detta i criteri ai quali positivamente la retribuzione deve rifarsi: assicurare al lavoratore un’esistenza libera e dignitosa.

Il mero negativo (la nullità) non si può trasformarlo in positivo, aggiungendo ciò che la legge non prevede.

Anche Maria Rosaria Maugeri approda alla sostituzione della clausola nulla secondo il meccanismo del 1419.2 [La nullità di singole clausole non importa la nullità del contratto, quando le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme imperative], che richiama il 1339 (Inserzione automatica di clausole).

Ma le due norme prevedono la sostituzione della clausola nulla mediante contenuti previsti da norme imperative: norme imperative che non esistono nell’ipotesi in esame.

A meno di identificare il prezzo di mercato con una norma imperativa: cosa che non sta né nel cielo della forma giuridica né nella terra della realtà materiale}.

Questo perché, tale clausola non essendo determinata dalla legge come esige il 1419.2, non si sa come potrebbe esserlo altrimenti.

Da essa, piuttosto, deriva la qualificazione di indebito del prezzo pagato.

La clausola, sia del contratto a monte che di quello a valle, che lo preveda, è nulla per la parte in cui è esecuzione immediata o mediata dell’intesa vietata o rappresenta il guadagno dovuto allo sfruttamento della posizione dominante.

Ne deriva la legittimazione di coloro che hanno pagato la quota indebita di prezzo alla ripetizione di essa, e cioè dell’intermediario nei confronti del fornitore e del consumatore nei confronti dell’intermediario.

La tesi secondo cui il contratto stipulato in attuazione di intese restrittive della concorrenza darebbe àdito ad un’azione volta a ridurre il contratto ad equità non appare a sua volta procedibile.

Ciò non tanto per la difficoltà di estrapolare un principio generale di riduzione del contratto iniquo ad equità dalla disciplina della rescissione, quanto perché ove ricorra la nullità del contratto per il profilo appena illustrato, risulta priva di fondamento una rimodellatura che ne presuppone la validità.

Ulteriore è la questione se in esito alla nullità possa ipotizzarsi una responsabilità a carico della parte che introduce la clausola nulla nel contratto.

In relazione all’81 Trattato CE (ex 85), che vieta le intese anticoncorrenziali riguardanti il mercato europeo, essa è stata affrontata dalla Corte europea di giustizia.

Nel caso Courage il gestore di un pub, in base ad una clausola impostagli dalla controparte in attuazione di un’intesa vietata, stipulata con un terzo, aveva dovuto pagare le forniture di birra ad un prezzo superiore a quello praticato dal terzo sul mercato.

Ad esso si richiamano anche le Sezioni unite ritenendo di ricavarne una tendenza ad ampliare l’ambito dei soggetti tutelati dalla normativa della concorrenza in una prospettiva, sembra al collegio, che valorizza proprio le azioni risarcitorie.

In realtà il richiamo alla decisione della Corte di giustizia si rivela del tutto ingiustificato.

La Corte di Lussemburgo, sulla scorta dell’idea che un singolo non può trarre beneficio dal proprio comportamento illecito, aveva affermato che il diritto comunitario non osta ad una norma di diritto nazionale che neghi a chi è parte di un contratto che può restringere o falsare il gioco della concorrenza il diritto di fondarsi sui propri atti illeciti per ottenere un risarcimento danni, qualora sia accertato che tale parte ha una responsabilità significativa nella distorsione della concorrenza.

Dunque un divieto per l’autore di un’intesa anticoncorrenziale di domandare un risarcimento dei danni facendo valere l’inadempimento dell’altra parte di un contratto concluso in attuazione dell’intesa stessa.

In pari tempo la Corte europea ha affermato che il diritto nazionale non può impedire a chi sia parte di un contratto che può restringere o falsare il gioco della concorrenza di chiedere il risarcimento di un danno causato dall’esecuzione del detto contratto per il solo motivo che il richiedente è parte di quest’ultimo.

L’àmbito al quale fa riferimento il caso Courage è tipicamente contrattuale, perché la controversia attiene all’esecuzione di un contratto, mentre l’estrapolazione fattane anche dalle Sezioni unite tende ad accreditare in sede extracontrattuale i princìpi formulati dalla Corte europea.

Contrattuale era dunque – ed è questa la seconda delle alternative di cui abbiamo detto – la responsabilità sulla cui strada ci si sarebbe dovuti incamminare, stando al suggerimento che avrebbe potuto trarsi dal caso Courage.

Nel danno contrattuale non si pone una questione di ingiustizia, essendo la responsabilità ex contractu la sede propria del danno meramente patrimoniale.

Il patrimonio come situazione soggettiva la cui lesione integrerebbe l’ingiustizia necessaria ad affermare il risarcimento in sede aquiliana è un’invenzione giurisprudenziale che non ha ragione di essere perché il patrimonio è solo la sintesi verbale delle situazioni soggettive suscettibili di valutazione economica facenti capo al soggetto.

Quando è in questione una perdita puramente patrimoniale, questa è risarcibile solo come conseguenza della violazione di un obbligo.

La responsabilità contrattuale, quando non è effetto dell’inadempimento, può derivare solo dall’invalidità del contratto.

Precisamente, il contratto è fonte di responsabilità per la parte che, conoscendo o dovendo conoscere l’esistenza di una causa di invalidità […] non ne ha dato notizia all’altra parte; e quest’ultima ha diritto al risarcimento del danno risentito per avere confidato, senza sua colpa, nella validità del contratto (1338: Conoscenza delle cause d’invalidità).

Nella specie il contratto è nullo per illiceità dell’oggetto perché, come la stessa Cassazione afferma, costituisce lo strumento essenziale di realizzazione dell’intesa anticoncorrenziale nulla, e perciò è fonte di responsabilità.

{Anche quando il cliente si possa dire a conoscenza della derivazione delle condizioni contrattuali da intese nulle, non viene meno la responsabilità in quanto, trattandosi di un contratto per adesione, è da escludere che la stipulazione di esso possa significare adesione del contraente debole all’invalidità}.

Dunque l’azione avrebbe dovuto vertere anzitutto sulla restituzione della somma risultante dalle quote di prezzo indebitamente pagate in base alla clausola nulla e, ulteriormente, sul risarcimento dei danni rappresentati da eventuali altre perdite.

Adolfo di Majo parla invece, con riguardo al caso in esame, di responsabilità da adempimento del contratto che, per i suoi contenuti e modalità, costituisca violazione di doveri rispetto ad esso sovraordinati, ma dire ciò è fuorviante: infatti una clausola nulla non è in grado di dar vita ad un rapporto obbligatorio di prestazione e perciò non può dar àdito a responsabilità per un’obbligazione che non c’è.

Per tale ragione l’autore o il portatore (l’intermediario) della clausola risponde del danno connesso con la nullità della stessa, come prevede il 1338 (Conoscenza delle cause d’invalidità).

E la natura vessatoria della clausola neutralizza la prospettazione di un concorso della parte assoggettata (il consumatore), che possa servire ad escludere o limitare la responsabilità di chi ne sia autore o portatore.

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