Christian von Bar ha sottoposto il 2050 ad acerba critica, rilevando:

a. che i fatti dannosi ascrivibili alla fattispecie del 2050 sono suscettibili di disciplina alla stregua della norma successiva, relativa al danno da cose in custodia;

b. che questa disciplina, che si rivela doppia, crea problemi di delimitazione tra una norma e l’altra;

c. un non felice connubio, in tale modello binario, tra la responsabilità da custodia, tipica dell’ordinamento francese, e la tedesca Gefährdungshaftung, la quale è una responsabilità da attività pericolose.

Possiamo dire anzitutto che nel disciplinare le attività pericolose il legislatore italiano non ebbe presente una possibile alternativa tra la disciplina nuova che introduceva e quella da cose in custodia.

Fosse stato consapevole di ciò, probabilmente non avrebbe adottato il 2051 (Danno cagionato da cose in custodia).

Nel Code Napoléon la responsabilità per il fatto delle cose (responsabilità du fait des choses), benché prevista nel 1384, diventa un’ipotesi autonoma di responsabilità solo nel diritto giurisprudenziale.

Proprio nell’esperienza francese Boris Starck aveva fatto valere che il concetto di garde, che sta a fondamento della responsabilità da cose, non è tanto la custodia come espressione di un diritto o di un potere di fatto sulla cosa, piuttosto l’attività di colui che viene fatto responsabile.

Se è vero che non si dà attività che non sia fornita degli strumenti necessari ad esercitarla, ridurre l’attività alla semplice custodia di una cosa dalla quale il danno possa essere derivato significa utilizzare una formula giuridica estremamente riduttiva, tanto più ove si pensi alle attività organizzate ad impresa, riguardo alle quali non è tanto il momento terminale del prodursi del danno che rileva per l’ordinamento, quanto piuttosto la scelta di svolgimento delle stesse.

In questo senso appare rilevante che nell’Avant projet (progetto preliminare) svizzero non si pensi ad una norma di responsabilità per danno da cose in custodia, ma si proponga di introdurre una regola di vera e sicura responsabilità oggettiva, ancorata all’attività pericolosa, mentre nell’esperienza belga Geneviève Schamps propone una responsabilità oggettiva fondata sulla pericolosità dell’attività o dei mezzi in essa adoperati ed in pari tempo la cancellazione della responsabilità fondata sul puro riferimento alla cosa.

La via da seguire sembra allora un’altra.

Paradossalmente, il 2050 (Responsabilità per l’esercizio di attività pericolose) sembra modellato su una regola di responsabilità meno rigorosa di quella del 2051 (Danno cagionato da cose in custodia).

Peraltro il 2050, pur non essendo stato concepito come norma di responsabilità oggettiva, lo è diventato nel diritto applicato, onde potrebbe ritenersi ormai inutile lo sforzo di trovare una linea di demarcazione rispetto al 2051: per scagionarsi da responsabilità l’autore dell’attività pericolosa non deve illudersi di poter provare di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno, ma piuttosto deve tentare a monte di scalzare la qualifica di pericolosità o, alternativamente, provare un fatto che si atteggi a caso fortuito, esattamente come previsto dal 2051 (Danno cagionato da cose in custodia: Ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito).

Sul piano concettuale, tuttavia, può avere ancora senso una responsabilità ex 2051 ogni volta che la cosa non sia strumento di attività ma mero oggetto di godimento.

Reciprocamente l’autonomia del 2051 (Danno cagionato da cose in custodia) si giustifica anche per le ipotesi nelle quali la cosa sia strumento di un’attività non pericolosa.

{Non rientra né nella prima né nella seconda di queste ipotesi il caso del cinghiale in autostrada deciso dalla Cassazione (12314/1998): la Suprema corte ha riputato che i danni subiti dall’utente dell’autostrada in seguito all’invasione della carreggiata da parte dell’animale selvatico non fossero da ricondurre alla fattispecie del 2051, bensì al 2043 (Risarcimento per fatto illecito), l’applicazione della prima norma ritenendosi esclusa sulla base dell’assunto che l’autostrada sarebbe un bene la cui estensione non consente una vigilanza e un controllo idonei ad evitare l’insorgenza di situazioni di pericolo.

La sentenza appare segnata da una serie di equivoci.

Il primo attiene alla natura della responsabilità, che viene detta extracontrattuale perché il pagamento del pedaggio non determina la nascita di un rapporto contrattuale ma si risolve in una prestazione pecuniaria (tassa) imposta all’utente per poter usufruire di un pubblico servizio.

Qui l’equivoco consiste nell’identificazione della responsabilità contrattuale con quella derivante da un rapporto nato da contratto: anche ammesso che un contratto non si stipuli con l’accesso in autostrada, tra gestore ed utente si instaura un rapporto reciprocamente obbligatorio, onde la responsabilità che ne derivi non può che essere contrattuale.

Ove, come ritiene la Corte, si voglia attestare la responsabilità sul terreno extracontrattuale, si deve osservare che, quanto al modo di intendere la responsabilità da cose in custodia, se ne stravolge completamente la logica se non la si applica adducendo l’argomento dell’impossibilità di vigilanza e controllo.

Esso è anzitutto discutibile in fatto: la vigilanza potrebbe ben essere esercitata in maniera efficace o più efficace di quanto non accada, tanto più che la sede autostradale è delimitata da recinzioni che implicano l’obbligo di controllarne l’integrità.

Se poi si sposta l’accento sul piano dei costi, la valutazione di opportunità degli stessi lasciata all’autore dell’attività spiega proprio la previsione della responsabilità oggettiva.

In questo senso rappresenta un decisivo progresso la più recente giurisprudenza della Cassazione, la quale da un lato, melius re perpensa, ritiene doversi privilegiare la soluzione contrattuale, dall’altro reputa altresì applicabile il 2051.

Però il riferimento alla cosa in custodia non sembra il più appropriato al danno subìto in autostrada, la quale è invece cosa strumentale rispetto all’attività di impresa, sicché più adeguato sembra il 2050 (Responsabilità per l’esercizio di attività pericolose)}.

L’esempio recente del Codice civile olandese sembra deporre proprio in questo senso: in esso due articoli, dedicati alla responsabilità da cose pericolose ed a quella da attività d’impresa pericolose, sono costruiti sull’idea di pericolosità, ma in pari tempo la distinzione della materia in due norme riflette quella rintracciabile nel Codice civile italiano rispettivamente tra 2051 (Danno cagionato da cose in custodia) e 2050 (Responsabilità per l’esercizio di attività pericolose).

Da un lato la responsabilità viene fondata sul mero controllo di una cosa dalla quale il danno derivi, come nel 2051 (Danno cagionato da cose in custodia); dall’altro è l’attività, qualificata già di impresa, a costituire il punto di ancoraggio della responsabilità, analogamente al 2050 (Responsabilità per l’esercizio di attività pericolose).

Per le cose non pericolose la custodia può essere fonte di responsabilità in applicazione della norma generale (corrispondente al 2043 (Risarcimento per fatto illecito)), il 6.162: questo prevede, come criterio di imputazione alternativo alla colpa, una causa che abbia dato origine al danno e della quale, secondo la legge o l’opinione comune, il soggetto debba rispondere.

Complessivamente ne risulta dunque confermato il doppio binario, della custodia e dell’attività come fonti distinte di responsabilità, che caratterizza il sistema italiano.

Nell’ordinamento tedesco invece la Gefährdungshaftung (creazione di pericolo) appare costituita da una serie troppo limitata di ipotesi di responsabilità oggettiva, come prova il diritto giurisprudenziale costretto a nascondere sotto le spoglie delle Verkehrspflichten quella che nella sostanza è una responsabilità senza colpa, non fosse altro perché lo standard di condotta che si dice violato è determinato a posteriori dal giudice.

La dottrina tedesca concorda nel ritenere che vale per la responsabilità oggettiva un principio di tassatività (Enumerationsprinzip) che si traduce, se non in un divieto di analogia in una estrema difficoltà di essa (Karl Larenz e Claus-Wilhelm Canaris parlano di “stretta” analogia).

Ciò manifesta in termini chiarissimi il retaggio del principio ohne Schuld keine Haftung (senza colpa nessuna responsabilità).

A giustificazione di questa chiusura sistematica della responsabilità oggettiva si adduce l’argomento garantistico della certezza del diritto.

Ma quando da parte degli stessi autori che accolgono questo argomento, sulla base della considerazione che il criterio del rischio (Gefährlichkeit) sarebbe troppo vago ed incerto, non si esclude in via di principio la possibilità di adozione legislativa di una clausola generale di responsabilità oggettiva, si finisce con il mostrare di non credere all’inconveniente dell’incertezza del diritto.

Il sistema di responsabilità civile che risulta vigente da questa descrizione in Germania è un sistema strenuamente preoccupato della centralità della colpa sul piano dell’affermazione di principio: in tale prospettiva le ipotesi di responsabilità oggettiva rimangono eccezioni rispetto alla disposizione generale del § 823.

Sul piano reale il risultato ammonta però ad una complessa costruzione di responsabilità oggettiva molto più ampia di quello che il principio di tassatività della Gefährdungshaftung possa far ritenere.

Una responsabilità oggettiva da attività pericolose limitata entro le fattispecie legislativamente individuate quale è la Gefährdungshaftung nell’ordinamento tedesco ha come rovescio della medaglia lo sviluppo incontrollato di una responsabilità oggettiva mascherata.

Quest’ultima ha preso forma con l’invenzione e la proliferazione della categoria delle Verkehrspflichten.

Esse rappresentano una delle categorie percepibili con maggior difficoltà, per la tensione irrisolta tra la violazione del dovere di diligenza che sembra essere il loro elemento costitutivo e gli esiti di responsabilità oggettiva che ad esse la giurisprudenza e la dottrina tedesche fanno di fatto conseguire.

Per quanto riguarda la loro origine storica, esse nascono dalla generalizzazione, operata dalla giurisprudenza, del dovere di osservare la diligenza nell’interazione necessaria allo scopo di tenere lontano il pericolo, prevista dal § 836 BGB per la rovina di edificio.

Il principio così affermato è che chiunque introduce o lascia perdurare nella sua attività rispetto agli altri una fonte di pericolo, deve adottare tutte le misure di sicurezza necessarie secondo la situazione alla tutela delle altre persone.

Si tratta dunque di conformare la condotta in modo adeguato ad impedire che la situazione creata dall’agente o della quale esso comunque abbia il controllo dia àdito ad una lesione della sfera giuridica altrui.

A ben vedere non si tratta di altro che di un paradigma di concretizzazione della diligenza.

Ma la definizione di Verkehrspflichten che la dottrina fornisce più che una concretizzazione è l’indicazione della necessità di concretizzazione, poiché anche riguardo ad essa si evidenzia la difficoltà insita nelle espressioni di tipo clausola generale non appena ci si chieda ex ante quali siano le Sicherungsmaßnahmen che, in relazione alla situazione, devono essere adottate da chi ha creato o comunque governa la situazione di pericolo.

Peter Schlechtriem rileva che poiché il dovere di diligenza che soggiace alla colpa viene inteso in maniera oggettiva e tipicizzato in relazione agli àmbiti vitali o professionali ai quali va riferito, esso finisce con il sovrapporsi e coincidere con le Verkehrspflichten.

Ma una volta verificata l’identità di natura tra diligenza e Verkehrspflichten, occorre spiegare l’affermazione iniziale circa una irrisolta tensione tra la responsabilità per colpa dalla quale le Verkehrspflichten nascono e gli esiti di responsabilità oggettiva ai quali l’utilizzazione di esse mette capo.

Invero, individuare dei doveri di condotta in relazione alle circostanze del caso finisce con l’essere o una ripetizione del dovere di diligenza o un’affermazione soltanto funzionale all’attingimento di un giudizio di responsabilità, solo a posteriori vestito delle spoglie della violazione di doveri ad hoc, che diventa in realtà mascheratura di una responsabilità oggettiva.

Josef Esser aveva rilevato come nella zona confusa occupata dalle Verkehrspflichten finissero con il confluire la colpa e un’idea di imputazione oggettiva della responsabilità.

E Christian von Bar dice che esse sono parte di un sistema di responsabilità che prende origine dal principio della colpa, ma in pari tempo ricevono un impulso essenziale dal patrimonio di pensiero della responsabilità oggettiva.

Le Verkehrspflichten hanno uno statuto diverso da quello che caratterizza nell’ordinamento tedesco la Gefährdungshaftung: in particolare, diversamente da quest’ultima, riconosciuta di esclusiva competenza del legislatore, la responsabilità da Verkehrspflichten è frutto altrettanto esclusivo del diritto giurisprudenziale; diversamente dalla prima, presuppone pur sempre l’imputabilità.

Nel momento in cui la responsabilità da violazione di Verkehrspflichten si riduce a responsabilità per non avere prevenuto ed evitato una lesione, se ne conferma la conformità di partenza al criterio della colpa.

Ma in pari tempo la concretizzazione della diligenza che ne viene fatta in relazione alla specifica situazione la fa diventare una responsabilità oggettiva del caso per caso.

La violazione di questi obblighi di sicurezza del traffico genera responsabilità per quella mancata adozione di misure idonee ad evitare il danno sulla quale il legislatore italiano ha costruito il 2050 (Responsabilità per l’esercizio di attività pericolose).

A ben vedere, il contenuto generale di questi obblighi del traffico coincide col dovere che il 2050 impone all’autore di attività pericolose: quello di adottare tutte le misure idonee a evitare il danno.

Le Verkehrspflichten sono allora la concretizzazione del dovere di diligenza in relazione al genere di situazione nella quale si svolga un’attività o si crei un pericolo.

L’onere di provare l’adozione delle misure idonee ad evitare il danno, che il 2050 impone a colui che esercita un’attività pericolosa, fa sì che se la prova non è raggiunta ciò equivale alla mancata adozione delle misure.

Perciò la responsabilità da violazione delle Verkehrspflichten manifesta la stessa ambiguità irrisolta della norma del codice italiano tra colpa e criteri oggettivi di imputazione.

Così come la giurisprudenza italiana mai ritiene raggiunta la prova di tale adozione e semmai arresta la responsabilità di fronte alla prova di una causa esterna all’attività, la giurisprudenza tedesca in mancanza di una norma legislativa ha accollato agli autori delle attività più disparate questi obblighi del traffico con una valutazione ex post, esclusivamente funzionale all’affermazione di una responsabilità.

Per via giurisprudenziale diretta, come è accaduto in Germania, o indiretta e mediata dall’applicazione forzata del 2050 oltre i limiti di per sé assegnati a tale norma dal legislatore, come è accaduto in Italia, il risultato è stato quello di una responsabilità oggettiva sotto mentite spoglie.

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