Quando si parla di inquinamento idrico non si può non pensare alla normativa sugli scarichi. Lo scarico è un concetto che ha una valenza esclusivamente giuridica: la nozione, espressamente prevista dalla normativa in materia di inquinamento idrico, ha la finalità di delimitare l’applicabilità della normativa stessa, perché se l’attività non è qualificabile come “scarico” si considera semplicemente come immissione, abbandono, rilascio di rifiuti, con conseguente applicazione della normativa in materia di rifiuti. La nozione di scarico la troviamo nella parte III del d.lgs. 152/2006; in questa parte del T.U. il legislatore ha deciso di accorpare due normative, tutela delle acque e difesa del suolo (in precedenza separata e disciplinata dalla l. n. 183/1989).

Facciamo, per iniziare, un rapido excursus storico-giuridico sulla nozione di scarico: la l. n. 319/1976 (Legge Merli), per la prima volta ha introdotto il concetto di scarico e ha obbligato chi scarica sostanze liquida nell’ambiente e nella rete fognaria a dotarsi di una specifica autorizzazione e a rispettare determinati valori limite. Ci sono state poi delle direttive comunitarie, attuate con il consueto e colpevole ritardo da parte del legislatore italiano. Il d.lgs. 152/1999 (come modificato dal d.lgs. 258/2000), poi, ha riscritto interamente la normativa in questione e ha rappresentato per lungo tempo un vero e proprio Testo Unico sull’inquinamento idrico. C’ è da precisare, comunque, che la normativa in materia si divide in più parti, alcune delle quali nemmeno contenute nel d.lgs. 152/2006. La divisione è così fatta:

  • Normativa sugli scarichi (d.lgs. 152/2006, parte III);
  • Normativa sull’approvvigionamento idrico (r.d. 1775/1933): si intende l’approvvigionamento tramite la costruzione di pozzi o tecniche di derivazione di acque dalle acque superficiali previa necessaria concessione amministrativa. La situazione è diversa dall’approvvigionamento idrico da acquedotto, nel qual caso interviene un contratto di somministrazione con la società che gestisce l’acquedotto;
  • Normativa sulle acque destinate al consumo umano (d.lgs. 31/2001, che recepisce una direttiva comunitaria);
  • Normativa sul servizio idrico integrato (d.lgs. 152/2006, parte III): interessa il servizio pubblico locale che gestisce tutto il ciclo delle acque, prima era disciplinato dalla l. n. 36/1994 (Legge Galli).

Iniziamo a vedere la normativa in questione, partendo dal Titolo II della parte III del d.lgs. 152/2006, in particolare con l’art 73: qui sono contenute, così come faceva l’art. 1 del d.lgs.152/1999, le finalità della normativa, tramite l’indicazione, ovviamente, degli obiettivi, che sono prevenzione e riduzione dell’inquinamento e risanamento dei siti idrici inquinati. C’è da precisare, comunque, che la risorsa idrica non necessita solo di una tutela qualitativa, ma anche di una tutela quantitativa, dal momento che, comunque, l’acqua è e rimarrà una risorsa esauribile.

La l. n. 319/1976 operava una classificazione di scarico basata sulla provenienza degli scarichi, quindi in scarichi da insediamenti civili e scarichi da insediamenti produttivi. Il d.lgs. 152/1999 cambia impostazione e si fonda non più sulla provenienza, ma sulla tipologia degli scarichi (dando importanza anche alla qualità degli scarichi, non più solo alla provenienza) per operare la classificazione in acque reflue domestiche, industriali e urbane. Si può notare anche come si iniziò a parlare di acque reflue, che sono il contenuto degli scarichi idrici, e non più di scarichi e basta.

La definizione di acque reflue domestiche è contenuto nell’art 2, co. 1, lett. g del d.lgs. 152/1999, che scrive “acque reflue provenienti da insediamenti di tipo residenziale e da servizi e derivanti prevalentemente dal metabolismo umano e da attività domestiche”: l’inciso in grassetto ha una grandissima importanza perché inserisce per la prima volta un criterio qualitativo. Un inciso importante per lo stesso identico motivo lo troviamo anche alla lettera seguente (art. 2, co. 1, lett. h, d.lgs. 152/1999) che definisce le acque reflue industriali scrivendo: “qualsiasi tipo di acque reflue scaricate da edifici od installazioni in cui si svolgono attività commerciali o di produzione di beni, diverse dalle acque reflue domestiche e dalle acque meteoriche di dilavamento”. Il criterio qualitativo, comunque, prevale sempre sul criterio della prevalenza. Alla lettera i, poi, il decreto completa le definizioni con le acque reflue urbane: “acque reflue domestiche o il miscuglio di acque reflue domestiche, di acque reflue industriali ovvero meteoriche di dilavamento convogliate in reti fognarie, anche separate, e provenienti da agglomerato”. Quest’ultima categoria esiste perché, ai fini dell’autorizzazione, non serve considerare solo lo scarico nella rete fognaria, ma anche la scarico della rete fognaria: anche questa deve scaricare prima o poi, non sta sulla Luna!

Passiamo ora alla definizione di scarico che sempre il d.lgs. 152/1999 ci dà. L’art. 2, co. 1, lett. bb scrive: “qualsiasi immissione diretta tramite condotta di acque reflue liquide, semiliquide e comunque convogliabili nelle acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete fognaria, indipendentemente dalla loro natura inquinante, anche sottoposte a preventivo trattamento di depurazione. Sono esclusi i rilasci di acque previsti all’art. 40” (l’art. 40 riguarda le dighe). Da notare che anche l’immissione di acque reflue non inquinanti è considerata scarico, quindi deve essere autorizzata. Tutte le volte, invece, in cui l’immissione non è diretta (se c’è un’interruzione fisica tra l’attività produttiva e la rete fognaria) non c’è scarico; questa concezione è figlia di una sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione del 1995 che introduce un nuovo criterio per distinguere scarico idrico da rifiuti. Non si ricorre più alla distinzione tra liquidi e solidi, se una sostanza è immessa direttamente è scarico; la medesima sostanza immessa tramite altre procedure è rifiuto.

Il d.lgs. 152/2006 sembra fare un passo indietro e tornare al 1976; all’art. 74, co, 1, lett. ff si legge: “qualsiasi immissione di acque reflue in acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete fognaria, indipendentemente dalla loro natura inquinante, anche sottoposte a preventivo trattamento di depurazione. Sono esclusi i rilasci di acque previsti all’articolo 114” (l’art. 114 disciplina il rilascio di acque mediante dighe). Come si può notare, spariscono le tre parole (“diretta tramite condotta”) che avevano fatto la fortuna del d.lgs. 152/1999, per questo sembra di tornare alla Legge Merli, senza distinzione tra immissione diretta o indiretta. La Cassazione poi, come se nulla fosse successo e fingendo che il legislatore ambientale nel 2006 non fosse mai esistito, ribadisce il concetto del 1995, reintroducendo la distinzione fra immissione diretta e indiretta (sent. n. 40191 del 30 ottobre 2007). Lo stesso art. 74, co. 1, lett. ff, come però modificato dal d.lgs. 4/2008, recita in maniera diversa: è scarico “qualsiasi immissione effettuata esclusivamente tramite un sistema stabile di colletta mento che collega senza soluzione di continuità il ciclo di produzione del refluo con il corpo ricettore […]”. Per quanto riguarda le acque industriali, il legislatore del 2006 le aveva intese nel seguente modo: “qualsiasi tipo di acque reflue provenienti da edifici od installazioni in cui si svolgono attività commerciali o di produzione di beni, differenti qualitativamente dalle acque reflue domestiche e da quelle meteoriche di dilavamento, intendendosi per tali anche quelle venute in contatto con sostanze o materiali, anche inquinanti, non connessi con le attività esercitate nello stabilimento” (art. 74, co. 1, lett. h). La giurisprudenza non si trovò molto d’accordo con questa formulazione e, quindi, equiparò le acque meteoriche di dilavamento agli scarichi industriali. Perché mai distinguerle se inquinano allo stesso modo? Il d.lgs. 4/2008 riformula la norma riproducendola ma omettendo l’ultima parte (per intenderci, arriva fino a “quelle meteoriche di dilavamento”). Per cui si sa che è intervenuta una modifica, non si sa, invece, ancora come operi, vista la mancanza di precedenti. Le acque reflue urbane, infine, venivano definite come “il miscuglio di acque reflue domestiche, di acque reflue industriali, e/o di quelle meteoriche di dilavamento convogliate in reti fognarie, anche separate, e provenienti da agglomerato” (art.74, co. 1, lett. i). A differenza di quanto previsto dal d.lgs. 152/1999, qui sembrava che per essere urbane le acque reflue sarebbero dovute consistere necessariamente ed esclusivamente in un miscuglio. Se questo miscuglio non c’era, le reflue non erano urbane.

Per concludere, l’art. 95 tratta della tutela quantitativa delle risorse idriche (“pianificazione delle utilizzazioni delle acque volta ad evitare ripercussioni sulla qualità delle stesse e a consentire un consumo idrico sostenibile”), l’art. 101 fissa i criteri generali della disciplina degli scarichi (“Tutti gli scarichi […] devono comunque rispettare i valori limite previsti nell’Allegato 5 alla parte terza del presente decreto”); agli artt. 103 e 104 si realizza formalmente la concezione secondo cui, comunque, tra i corpi ricettori vi sia una sorta di gerarchia: così l’art. 103 vieta lo scarico sul suolo, l’art. 104 vieta lo scarico nelle acque sotterranee e nel sottosuolo.

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