Il processo delle quaestiones andò strutturandosi secondo un modello uniforme, che ci è abbastanza noto nelle sue linee fondamentali e può costituire oggetto di esposizione unitaria.

A differenza del processo comiziale, promosso per iniziativa autonoma del magistrato, esso prendeva sempre le mosse dalla denuncia di un privato. Il potere di perseguire il crimine non era riconosciuto alla sola persona lesa: qualsiasi cittadino di buona reputazione poteva comunque elevare accusa contro il presunto colpevole, agendo in certo qual modo quale rappresentante della comunità.

La qualifica di iudicium publicum, attribuita dalle fonti alla nuova procedura, traeva origine dal carattere pubblico dell’istanza punitiva, ovvero dal fatto che l’iniziativa della persecuzione non si connetteva a un interesse personale dell’agente, ma all’interesse di tutto il popolo, che egli nella specie impersonava.

Anche se teoricamente il cittadino agiva come portatore dell’interesse collettivo, nella realtà i motivi che lo spingevano all’accusa di erano spesso meno nobili: talora egli perseguiva una propria personale vendetta o era mosso da ambizioni politiche. Non era raro il caso che intentasse processo allo scopo di conseguire speciali ricompense previste da alcune leggi per gli accusatori vittoriosi.

Il procedimento di introduzione della causa si articolava in varie fasi:

1) Istanza preliminare con cui il denunciante chiedeva al magistrato investito della quaestio il riconoscimento della sua legittimazione ad accusare

2) Verifica da parte del magistrato della sussistenza dei requisiti richiesti dalla legge, tra cui l’onorabilità del postulante

3) Decisione da parte del magistrato circa l’ammissibilità dell’istanza.

Se i postulanti per lo stesso fatto criminoso erano più d’uno, si svolgeva un giudizio preventivo per stabilire, in base alla dignità o all’affidabilità quale fosse l’accusatore da preferire.

4) Presentazione formale dell’accusa: l’accusatore intimava all’accusato di presentarsi in tribunale e gli imputava, alla presenza del magistrato, il fatto criminoso a lui attribuito, poi lo sottoponeva a un circostanziato interrogatorio, volto a mostrare che il suo comportamento non era stato conforme alla legge

5) Concluso l’interrogatorio, il magistrato raccoglieva l’accusa in un processo verbale, in calce al quale l’accusatore apponeva la propria firma in segno di conferma.

Anche le altre persone potevano aderire, sottoscrivendo il medesimo verbale, all’azione proposta dall’accusatore principale.

6) Seguiva l’accettazione ufficiale dell’accusa da parte del magistrato, che si concretava nell’iscrizione della causa nello speciale registro in cui erano segnati, in ordine cronologico, i processi da trattare dinanzi alla quaestio.

A partire da questo momento l’accusato diveniva formalmente reus: era chiamato a rispondere esclusivamente del reato per cui era stato iscritto, e la sentenza nei suoi confronti non poteva avere per base un fatto diverso da quello imputatogli.

7) Il magistrato fissava quindi il giorno in cui le parti dovevano comparire in tribunale per la discussione della causa.

Era consuetudine che fra la nominis receptio e la data di comparizione intercorressero almeno 10gg: ma il termine poteva essere abbreviato o prolungato a seconda delle esigenze del caso concreto. L’accusato, durante questo lasso di tempo, non era sottoposto a carcerazione preventiva, a meno che tale misura non fosse consigliata da motivi di opportunità.

Prima della data fissata per il dibattimento, il magistrato provvedeva a formare la giuria e a far giurare i membri del consilium.

La costituzione del collegio giudicante aveva luogo, di regola, col sistema della sortitio. Il magistrato scriveva o faceva scrivere sopra delle piccole sfere il nome dei giudici della quaestio e li inseriva in un’urna, quindi estraeva a sorte un certo numero di nomi, superiore a quello dei giurati che dovevano comporre il consilium. Conclusa tale operazione, l’accusato e l’accusatore eliminavano dal novero dei sorteggiati quelli che non erano di loro gradimento, fino a raggiungere il numero prescritto per la composizione del collegio.

Il giorno stabilito per la discussione, nella sede destinata allo svolgimento del giudizio, il magistrato faceva chiamare da un ufficiale giudiziario:

  • l’accusatore
  • l’accusato
  • i difensori
  • i giudici

→ al fine di verificarne la presenza

Se risultava ingiustificatamente assente:

  • l’accusatore: il nome dell’accusato veniva cancellato dal ruolo dei rei e il processo si estingueva
  • l’accusato: si procedeva ugualmente nei suoi confronti

Quando le parti erano entrambe presenti, la causa era immediatamente portate in discussione davanti al collegio.

Prendeva la parola per primo l’accusatore, eventualmente coadiuvato dai subscriptores; poi l’accusato, di persona o per mezzo dei suoi difensori. Al termine delle orationes dell’accusa e della difesa si procedeva all’escussione dei testimoni.

I testimoni prestavano giuramento dinanzi al magistrato e venivano interrogati prima dalla parte che li aveva prodotti, quindi dall’avversario. Gli schiavi erano interrogati sotto tortura. Ai testimoni si affiancavano solitamente i laudatores, cioè dei cittadini influenti e stimati che davano il loro appoggio all’accusato attestandone la moralità e facendone le lodi.

Concluso il dibattimento, i membri del collegio erano invitati a ritirarsi per deliberare. Ogni giurato riceveva una tavoletta cerata recante da un lato la lettera A (absolvo), dall’altro la lettera C (condemno), e dopo aver cancellato 1 delle 2, o entrambe se voleva astenersi, deponeva la tavoletta in un’urna appositamente predisposta.

Al termine di tale operazione, il magistrato, che non votava, raccoglieva le pronunce dei giurati e rendeva noto l’esito dello scrutinio. Se l’alto numero di astensioni non consentiva il raggiungimento della maggioranza richiesta per la condanna o l’assoluzione, il dibattimento doveva essere rinnovato; altrimenti il processo si chiudeva con una decisione di merito.

La sentenza si limitava all’affermazione della colpevolezza o dell’innocenza dell’accusato circa il fatto criminoso, poiché la pena era determinata in misura fissa dalla legge istitutiva della quaestio, e non poteva essere modificata dai giurati in relazione alla gravità del reato.

Nei processi de repetundis e in quelli di peculato, nei quali la condanna consisteva in una somma di denaro commisurata al valore del maltolto, la funzione della giuria non si esauriva con la dichiarazione di colpevolezza, poiché alla causa principale doveva far seguito un procedimento accessorio diretto:

  • all’accertamento del danno
  • alla determinazione concreta della pena che il reo era tenuto a pagare

Carattere di accessorietà aveva anche il procedimento che, dopo una condanna per repetundae, poteva essere intentato dinanzi ai giudici del processo principale per ottenere da coloro ai quali fossero pervenute delle somme del patrimonio del condannato, il pagamento di ciò che non aveva pagato il reo insolvibile.

Quando il processo si concludeva con una sentenza di assoluzione e nel corso del dibattimento appariva evidente che l’accusa era stata promossa solo per recar danno all’accusato, nella consapevolezza della sua innocenza, l’accusatore era chiamato a rispondere di calumnia dinanzi ai giudici della stessa quaestio.

Se l’assoluzione risultava ottenuta per mezzo di un accordo fraudolento fra accusatore e accusato, la cosa poteva essere rinnovata da un’altra persona.

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