Mentre la legge comiziale cade rapidamente in disuso, sono le costituzioni imperiali a rappresentare, sotto il profilo normativo, la novità saliente del principato. I giuristi romani distinguevano diversi tipi di costituzioni imperiali: il decretum, il rescriptum, l’epistula, l’edictum e il mandatum.

A tali costituzioni veniva riconosciuta forza di legge, intesa come la capacità di creare effetti civili. Intorno al II secolo d.C, prende il sopravvento la considerazione per cui l’efficacia delle constitutiones si basa sui poteri conferiti al princeps con la lex de imperio e che in funzione di ciò, tutte le costituzioni imperiali abbiano forza di legge.

Per quanto concerne gli edicta, già la loro denominazione fa pensare al fatto che essi si fondassero sul ius edicendi dell’imperatore, che a sua volta trovava fondamento nel ius proconsulare maius et infinitum.

Esiste una differenza sostanziale fra gli edicta del princeps e quello di un magistrato. Mentre, ad esempio, l’edictum di un pretore è una forma di autoregolamentazione dell’attività del pretore stesso, quello del princeps tende a regolare direttamente l’attività dei soggetti dell’ordinamento. Tali differenze sono il riflesso nella diversa situazione in cui l’imperatore esercita l’imperium proconsulare, il quale altro non è che un imperium pro magistratuale.

Costituzioni dal carattere generale sono anche i mandata, istruzioni date dall’imperatore ai propri funzionari ma anche ai governatori, proconsules delle province senatorie.

Alle origini, i mandata erano istruzioni personalizzate date al singolo funzionario: a poco a poco, tuttavia, venne formandosi una sorta di corpus mandato rum, non di carattere generale per tutti i possibili destinatari dei mandata stessi ma articolato in relazione alle singole cariche. E’ difficile stabilire con certezza se i corpora mandatorum avessero vigore o se si facesse riferimento alla condizione del singolo funzionario che di volta in volta andava a ricoprire la carica per cui i mandata erano vincolanti.

E’ stato sostenuto che i mandata non potrebbero esser considerati delle vere e proprie constitutiones, soprattutto poiché non conterrebbero norme a carattere innovativo, dando soltanto istruzioni per l’applicazione della norma esistente.

Questa opinione è comunque da escludere per il semplice fatto che i mandata, essendo dei provvedimenti imperiali a cui i giuristi riconoscono carattere normativo, non possono che essere ricondotti alle constitutiones.

Altro problema è quello del carattere vincolante dei mandata.

Esso non può esser trovato all’infuori dell’imperium proconsulare maius et infinitum. Sulla loro operatività, si fa riferimento a diverse fonti. Nella famosa epistula in cui si chiede a Traiano direttive sul modo di comportarsi nei confronti dei cristiani, Plinio si riferisce ad un proprio editto emanato sulla base di mandata.

Questo tipo di costituzione trova attuazione attraverso l’imperium del destinatario delle istruzioni così impartite: le norme contenute in tali istruzioni non sono immediatamente vincolanti per i soggetti dell’ordinamento ma soltanto nei confronti del funzionario chiamate ad applicarle.

Nel II secolo d.C, le costituzioni imperiali assumono tutte forza di legge. Per quanto concerne il diritto privato, sorge un problema piuttosto rilevante: quello di attribuire a tali costituzioni, effetti civili, molti si sono demandati se i mandata avessero efficacia anche dopo la morte dell’imperatore che li aveva emessi. Si è fatto quindi riferimento sul carattere privatistico dei rapporti fra il princeps e i propri funzionari, onde si sarebbero considerati i caratteri essenziali del mandato fra privati, il quale si estingue con la morte del mandante. Tuttavia, non vi sono delle tracce che attesterebbero una perdita di efficacia dei mandata alla morte dell’imperatore.

Altri tipi di costituzione imperiale sono tutti rivolti alla decisione dei casi concreti. Essi assumono una stretta relazione col processo, sia privato che criminale. Nasce, a questo punto, il problema della loro portata generale nonché della loro funzionalità, essendo comunque tipologie di costituzione che si rivolgono a dei singoli casi concreti.

Per quanto concerne la figura del decretum, questo è adoperato sia dal princeps, con un significato generico, sia dai magistrati repubblicani. In senso tecnico, tuttavia, i decreta principis sono sentenze emanate dall’imperatore nell’esercizio della sua giurisdizione, sia in materia civile che in quella criminale. Essi possedevano un carattere vincolante, in quanto decisioni del princeps e, dunque, non impugnabili.

Ad una diversa funzione, invece, adempiono i rescripta e le epistulae, in quanto provvedimenti diretti ad incidere sulla decisione di singole controversie. Rescripta ed epistulae s’inseriscono in un processo in corso o possono essere richiesti ed emanati per un processo che avverrà in futuro. Essi hanno come scopo quello di risolvere una questione di diritto in via vincolante per gli organi competenti alla decisione di un determinato processo.

L’epistula è una normale comunicazione del princeps, con cui quest’ultimo risponde ad un’altra epistula, a sua volta inviatagli da un funzionario imperiale o da un magistrato. Questi sottopongono all’imperatore una questione di diritto controversa che l’imperatore risolve, nell’epistola di risposta. A questo punto il funzionario o il magistrato debbono semplicemente adeguarsi alla soluzione prospettata dall’imperatore.

Il rescriptum, invece, è la risposta data dall’imperatore alla richiesta di un privato , portante sempre sulla risoluzione di una questione di diritto controversa, in relazione ad un processo in corso o in vista di un processo futuro. Rispetto all’epistula, il rescriptum possiede una struttura diversa, che dipende dal modo in cui il privato ha presentato la richiesta all’imperatore.

Sia per epistulae che per rescripta si pone il problema della loro efficacia.

Sicuramente trattasi di un’efficacia limitata per il semplice fatto che l’imperatore fornisce una risoluzione alla controversia in relazione a quanto potuto appurare attraverso le due forme di costituzione. Il fondamento del loro carattere vincolante risiede piuttosto nell’auctoritas del princeps, che conferisce al parere da lui espresso, un’autorevolezza che nessuno poteva, in qualche modo, contestare.

L’operatività dei rescripta e delle epistulae, ma anche dei decreta, poteva articolarsi diversamente a seconda della branca del diritto cui andavano ad incidere: sul piano del ius extraordinarium, infatti, l’imperatore aveva piena libertà di innovare attraverso la massima di decisione che risolveva un caso concreto, dato che questa branca del diritto si fondava sugli interventi del princeps stesso. Sul piano del diritto onorario, le cose non cambiavano in modo radicale: il principio che il princeps fissava attraverso una epistula o un rescriptum diveniva vincolante per i titolari della iurisdictio, i quali dovevano attenersi alle direttive formulate dall’imperatore.

Nel periodo compreso fra il II secolo ed il III secolo d.C, si afferma la tendenza ad accentrare nel princeps l’idoneità a produrre nuovo diritto, ferma restando la validità delle precedenti norme.

Le leges, in questo periodo, trovano una scarsa applicazione, come strumento normativo. Queste leggi, in realtà, non rappresentano il frutto di un’autonoma iniziativa politica della classe dirigente o di settori più o meno ampi di essa, come avveniva in epoca repubblicana: esse sono leges Iuliae e rappresentano lo strumento di cui Augusto si serviva per perseguire i suoi scopi di riforma e di restaurazione, anche se il controllo delle assemblee votanti non era poi così tanto semplice.

Questo spiega perché, a partire dal principato di Tiberio, gli imperatori si servono più che altro dello strumento del senatoconsultum, per incidere con norme astratte e generali nell’ordinamento romano, sebbene tali provvedimenti del senato avessero attuazione solo nell’ambito del diritto onorario.

Una profonda modificazione formale si ebbe sotto l’impero di Adriano, per quanto concerne l’editto pretorio, nel momento in cui si procedette alla sua codificazione.

Da quel momento, i pretori che si succedevano nella carica erano tenuti a proporre l’editto nella redazione codificata, sancita mediante un senatoconsulto e che, dunque, poteva essere modificata soltanto grazie ad un altro senatoconsulto.

Nel tardo principato,i giuristi romani individuano una fonte di diritto nei responsa e nell’auctoritas prudentium.

La posizione della giurisprudenza come fonte di diritto è mancata da tratti fortemente caratteristici. Da una parte,essa costituisce la fonte mediante il quale si viene a conoscenza di quella parte del ius civile contenuto nelle XII Tavole ma che,nella tarda repubblica trovava la sua fonte nell’interpretatio prudentium. Anche nel principato, questa interpretatio costituiva l’unico mezzo con cui il ius civile poteva coerentemente svilupparsi,nel rispetto di quanto contenuto nelle XII Tavole. Un’analoga funzione veniva a svolgere l’interpretatio stessa rispetto a quegli istituti del ius civile che non potevano essere riportati alle XII Tavole in quanto essi si erano introdotti nel sistema civilistico indipendentemente da qualsiasi statuizione normativa

L’opera dei giuristi investe tutto l’ordinamento giuridico, investendo diverse branche del diritto, come il ius civile, il ius honorarium, il ius extraordinarium. D’altro canto era la giurisprudenza che permetteva di ottenere una visione unitaria dell’ordinamento, in mancanza della quale sarebbe stato difficile assicurarne un buon funzionamento.

Una delle caratteristiche principali di questo ordinamento è la totale mancanza di una giurisprudenza in senso moderno. Tale assenza risulta essere collegata a vari aspetti di questa esperienza giuridica. Principalmente, il giudice è un laico e un privato, il cui parere ottiene un valore decisivo ai fini della controversia grazie ai magistrati e alle parti.

In secondo luogo, le decisioni non erano mai motivate e questo è senza dubbio un elemento essenziale per poter parlare di una giurisprudenza moderna. In questa situazione, i pareri dei giuristi erano sentiti vincolanti per il giudice privato, in quanto laico, ed anche, seppur in termini diversi, per i magistrati e i funzionari che non fossero cultori di diritto.

Il giudice non si sarebbe mai sentito autorizzato a disattendere il parere di un giurista. In tutto questo, giocava anche l’influsso del modello offerto dall’interpretatio dei pontifices, il cui carattere vincolante non era mai stato posto in dubbio e che rispetto al’interpretatio prudentium, si presentava come unitaria.

Il ius controversum nasce quando i prudentes si sostituiscono ai pontifices e l’unitarietà dell’interpretatio lascia spazio alla pluralità delle opinioni: per l’auctoritas che veniva riconosciuta anche ai giuristi laici, ogni sententia emessa dai singoli prudentes era sentita vincolante, con il limite del concorso delle altre e diversamente orientate sententiae.

Tutte costituivano diritto poiché tutte potevano essere scelte dal giudice per essere applicate al caso concreto: e nessuno avrebbe imputato al giudice stesso di non aver applicato il diritto vigente. Ma nel caso in cui vi fossero più sententiae divergenti applicabili nel caso concreto, nessuna di esse veniva considerata, più delle altre, legittimata ad essere considerata come diritto vigente. Questa attività della giurisprudenza finisce però per confrontarsi con la nuova realtà istituzionale del principato, e con le constitutiones principis. Per quanto concerne il rapporto fra princeps e giuristi, va sottolineato come i giuristi e le loro personalità, durante il principato, non risultassero essere appiattite dal princeps, in modo totale.

In ambito privatistico, non vi è più la tendenza ad utilizzare costituzioni a carattere generale. Il tutto sicuramente è dovuto anche all’incertezza sulla qualifica dei loro effetti, la quale sarebbe stata superata dal riconoscimento avvenuto agli inizi del II secolo d.C, sulla loro forza di legge. La svolta avviene con certezza con Adriano, con cui il numero dei rescripta tende a crescere.

Ma questo non significa assolutamente il venir meno dell’attività dei giuristi. Sotto Adriano, si adottano dei modelli molto simili a quelli dell’età repubblicana. Appare del tutto marginale, la normazione di carattere generale ed astratto. Nell’ambito delle costituzioni relative all’ordinamento privato, un problema particolare è posto dal ius novum o extraordinarium. Si è già visto come i principi fissati nelle costituzioni particolari rilevassero, sul piano del diritto civile o del diritto onorario, a seconda del contesto su cui andavano ad incidere. Ma non sempre era questa l’operatività delle formazioni imperiali. Da una parte, sul piano processuale, sulla base del potere giurisdizionale del princeps si viene organizzando una nuova forma di processo, la cognitio extra ordinem, che rappresenta sul piano della tutela civile dei diritti il corrispondente della cognitio criminale.

Dall’altra, si vengono a configurare delle situazioni giuridiche soggettive che trovano della cognitio stessa la loro esclusiva protezione.

Il problema delle origini extra ordinem è molto discusso in dottrina. Si è soliti pensare che alle origini, non siamo in presenza di un fenomeno a carattere unitario: esistono cognitiones quanti ne sono i casi di applicazione. Ciò significa che siffatte cognitiones sono tutte contrassegnate da alcuni tratti che rappresentano le caratteristiche essenziali di questa nuova tipologia di processo.

Scompare, inoltre, la distinzione fra fase in iure e fase apud iudicem. Nella cognitio, il magistrato o funzionario cui è affidata la causa è competente dell’intero processo. Essi assumono la qualificazione di iudices.

Inoltre, tale forma di processo assumeva determinate peculiarità: nel caso in cui non acconsentisse al processo, il convenuto era esposto alle sanzioni previste per l’indefensio, le quali potevano configurarsi come uno svantaggio rispetto all’accettazione del giudizio, ma comunque non si arrivava alla sentenza che accertasse la questione controversa, alla res iudicata. Nella cognitio, si poteva giungere alla condanna in contumacia del convenuto che non avesse ottemperato all’obbligo di comparizione in giudizio: comparizione che appare, dunque, come un elemento essenziale.

Si tratta, in un certo senso, di un processo pubblicistico.

Per la prima volta, nell’ambito del processo privato, si riconosce che la funzione di procedere all’accertamento della controversia appartiene completamente allo stato, presupponendo la partecipazione di un’autorità pubblica come organo giudicante.

La cognitio sicuramente ha una duplice funzione:

– Da una parte, serve a garantire la tutela giudiziaria a quelle situazioni giuridiche soggettive, non disciplinate dal ius civile e dal ius honorarium ma regolamentate dall’attività normativa del princeps.

– Dall’altra, essa garantisce una tutela processuale dei diritti soggettivi rilevanti nell’ordinamento.

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