In questo periodo l’attività dei giureconsulti si inserisce nel sistema delle fonti del diritto con un diverso significato formale e in diverso rapporto con le fonti normative in senso stretto: l’introduzione del “ius respondendi ex auctoritate principis” (con Augusto), comportò il valore normativo del responso del giurista, non alterando però la tecnica di produzione, che avviene comunque secondo il metodo casistico. In quest’epoca aumentano gli interventi legislativi nel diritto privato, specie con senatoconsulti o costituzioni imperiali e addirittura con Adriano l’editto del pretore è testo normativo. Quindi i giureconsulti operano come interpreti di un diritto positivo più articolato ed ampio dell’età repubblicana. Si può pensare che all’inizio del Principato i giureconsulti avessero atteggiamenti diversi verso l’instaurarsi del potere personale del Principe e specie nei riguardi della politica di legalizzazione della giurisprudenza (che si risolveva nella limitazione/subordinazione dell’interpretatio giurisprudenziale). Secondo Vacca, nelle Istituzioni di Ulpiano, Pomponio presenta come contrapposto sul piano della creatività il giurista Capitone (legato al Principe da cui aveva accettato il consolato) e il giurista Labeone (che tale consolato aveva rifiutato, ma che è considerato il fondatore del metodo giurisprudenziale come metodo casistico) (p.17,l). Questa tendenza di Labeone era la necessaria conseguenza della formulazione del metodo casistico come “metodo del probabile” (ciò comportava la preminenza del giureconsulto sul diritto preesistente, presupponendo la mediazione della sua valutazione tecnica per applicare il diritto al caso concreto). Secondo Vacca, nel tipo di metodo precisato da Labeone si possono porre le basi per una concezione del diritto come quella testimoniata nei passi di Ulpiano (p 17-18,l). Gaio invece, nelle Istituzioni di Gaio, (p.18,l) ritiene che gli elementi di diritto siano quelli riconosciuti dall’ordinamento come fonte di norme e il giurista li distingue in base al modo di produzione, ponendoli tutti sullo stesso piano (in questa elencazione l’attività dei giuristi è considerata solo sotto l’aspetto dei responsi di coloro “a cui fu permesso di fondare il diritto” (secondo Vacca, è un angolo visuale riduttivo del fenomeno dei giuristi, che ne limita la funzione creatrice all’aspetto meramente formale)).

In Ulpiano invece si vede il ius come diritto giurisprudenziale prodotto dagli “oracoli del diritto” ossia i giureconsulti, che sono “iuris periti” e quindi sono gli unici capaci di distinguere il giusto dall’ingiusto e l’equo dall’iniquo. La definizione di Celso qui richiamata è la definizione del diritto dal punto di vista dei giuristi, in cui il ius si identifica con la coscienza del giurista stesso, con la sua individuazione dell’equità relativamente al caso concreto, che è una manifestazione particolare “dell’equità relativa al caso concreto”: quest’ultima è una manifestazione particolare dell’equità generale di cui egli solo, in quanto iuris prudens, possiede la scentia, ossia la conoscenza di un metodo scientifico che lo pone in condizione di individuare correttamente la soluzione di un singolo caso alla luce dei principi generali, facendo si che se la soluzione del nuovo caso implica la deviazione dai principi generali , questi possono essere o arricchiti o derogati senza che ciò alteri l’armonia del sistema.

Qui può esser utile la distinzione di De Marini tra “equità generale(che è generale perchè composta di regole generali ed astratte, che hanno validità anche prescindendo dalla concretezza del fatto) ed obiettiva in quanto le sue regole sono esterne a chi deve conoscerle ed applicarle. In questo senso la pronuncia del giudice di equità avrebbe natura dichiarativa perchè dovrebbe accertare regole già preesistenti al giudizio stesso. L’equità si contrapporrebbe allora al diritto in quanto le sue regole si definiscono agli stessi rapporti disciplinati dal diritto ed essa quindi influenza/modifica/sostituisce il diritto positivo) ed “equità particolare” (il significato sarebbe quello descritto da Aristotele: l’equità presuppone il diritto positivo ed opera con esso, non si contrappongono quindi e poi è particolare in quanto la decisione è presa solo in base a quanto è considerato giusto per il caso concreto e oltre ciò è soggettiva perchè il giudice ricercherà la soluzione nella sua coscienza, in quanto lui solo può valutare il carattere di eccezionalità del caso concreto di fronte alle norme generali, formulando un principio non più generalizzabile. Tuttavia nota Vacca che le regole generali che nascono dalla generalizzazione delle soluzioni concrete sono per i giuristi romani “regole casistiche” (e non normative) e ciò comporta la necessaria implicazione della valutazione tecnica del giureconsulto, che dovrà riferirsi a ciò che egli ritiene equo anche in relazione alla particolarità del caso (ma non riferendosi a ciò che è giusto od equo per la coscienza sociale): in pratica le 2 accezioni di De Marini devono più che altro riferirsi al modo diverso in cui si impostano i rapporti tra diritto ed equità in un sistema di tipo normativo e in un sistema di tipo casistico.

Nel sistema casistico, il giurista parte dal presupposto che il principio di diritto che lui individua di volta in volta come principio giusto (conforme al diritto) o equo (conforme alla struttura del caso) non sia un principio di valore generale, valido per tutti i casi, bensì un principio il cui valore è “probabile”: in pratica per il giurista romano l’obiettivo non è la certezza del dir, ma che il diritto sia conforme alla natura dei fatti (in ciò si identifica con l’equità). Giavoleno, in un discusso frammento, intende proprio enunciare il fondamentale principio della mancanza di definitività e sicurezza di ogni generalizzazione/astrazione, in quanto non esiste principio che non possa esser modificato: si tratta del criterio del probabile, come necessaria apertura all’equità.

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