Nell’ipotesi del delitto tentato non si ha una modifica della figura del delitto consumato, in quanto a questa si affianca una nuova previsione normativa, in conformità a cui si realizza, sul piano sistematico, un illecito perfetto. Quindi accanto a ogni fattispecie delittuosa, se ne colloca un’altra delineante la condotta con cui si tenta (senza riuscirvi) di commettere un fatto corrispondente alla prima. Essa è una fattispecie che giuridicamente parlando ha piena individualità formale e sostanziale. Di conseguenza gli atti tentati sono puniti da un titolo autonomo: il Titolo del tentativo. Il tentativo appare come il delitto in itinere mentre il delitto perfetto è il delitto giunto alla meta. Sviluppando ciò capiamo che il cammino verso la consumazione d’un delitto perfetto possa arrestarsi a tappe più o meno distanti dal perfezionamento: un tentativo di delitto può figurarsi come attività interrotta (esempio: Ttizio viene bloccato mentre con intento d’uccidere punta l’arma verso la vittima designata); poi tentativo è anche quello caratterizzato dall’esaurimento d’un’attività che non approda al risultato avuto di mira (Tizio spara con intento di uccidere ma non raggiunge Caio). Siamo davanti a un caso in cui: l’azione non si compie (primo caso), nel secondo l’evento non si verifica (2° caso). Il 56 considera entrambe queste ipotesi: “Chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l’azione non si compie o l’evento non si verifica”. Da ciò bisognerà quindi precisare quali siano le ragioni che hanno motivato la scelta di punire atti non pervenuti al risultato avuto di mira, ma punirli in maniera minore di quanto avrebbe comportato il delitto perfetto, dando vita ad un titolo autonomo di illecito. Vediamo ora come il nostro ordinamento ha trattato questo delitto.

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