Il 56 ci dice che sono costitutivi di un delitto tentato: “atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto”. Di conseguenza non esiste il tentativo di reato contravvenzionale.

Idoneità e non equivocità. Per esser compresi questi termini devono esser seguiti dal referente, nei confronti di cui va stabilito se un certo comportamento possiede queste 2 qualità. Oltre a ciò, bisogna chiarire qual’era l’intenzione del soggetto agente, ossia quale delitto egli aveva di mira. Sappiamo che per l’illecito consumato la strada è quella di verificare gli elementi oggettivi (positivi e negativi) che danno vita al fatto. L’elemento soggettivo riflette questi elementi, anzi è la natura di questi ultimi a determinare quando la componente cosiddetta “psicologica” del reato si risolva in volizione o semplice rappresentazione del dato materiale. Tutto questo discorso vale anche per l’elemento psicologico del tentativo: ma al giudizio che afferma l’idoneità e la non equivocità dell’atto ci si arriva appurando inizialmente a cosa tendesse il comportamento dell’agente (momento finalistico che contrassegna la struttura: non è fuori luogo parlare di elemento soggettivo del fatto, da non confondersi però con l’elemento psicologico del tentativo). Deve quindi essere appurata l’intenzione per definire l’idoneità e la non equivocità: questa non si accompagna per forza alla realizzazione di atti tipici, in quanto può precederla e può esser caratterizzata dal proposito di rinviare l’esecuzione della condotta rispondente a una previsione criminosa. Ad esempio io voglio fare un furto e il giorno prima faccio un sopralluogo su un luogo dove voglio fare un furto. Sono animato da intenzione criminosa, ma non agisco nell’attualità di una volontà dolosa. Quindi anche se c’è idoneità e non equivocità, per difetto di dolo, non c’è tentativo. È allora necessario delimitare l’area delle circostanze da cui è lecito desumere la direzione non equivoca degli atti. Si è discusso se ciò avvenga sulla scorta del comportamento posto in essere (capace in sé di rivelare l’intenzione del soggetto agente) o se questa possa ricavarsi anche da dati estranei all’atto compiuto, o se occorra tener conto di natura dell’atto e degli elementi che lo accompagnano (ciò proviene dalla Relazione del Re al C.P.: per cui l’atto deve esser non equivoco, ma la direzione non equivoca può tranquillamente esser desunta da altri elementi. per Gallo questo discorso è valido, ma non condivide la premessa, la quale sostiene che si possa parlare di idoneità e non equivocità di una certa condotta prima di aver stabilito quale fosse l’intenzione che sorreggeva questa condotta. Il dato incontrovertibile è che nella dinamica dell’accertamento sia prioritario precisare l’intento dell’agente: a questo punto potremo sciogliere i termini di relazione che sono idoneità e direzione non equivoca. Quindi il problema di quale sia l’ambito delle circostanze è un non problema)

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