Risulta particolarmente diffusa la contrarietà all’accanimento terapeutico, ossia all’uso di interventi tecnico-sanitari il cui solo scopo sembra quello di consentire la pura sopravvivenza vegetativa della persona (non diritto a vivere ma dovere di vivere ). In pochi tuttavia sono disposti a segnare quali siano i limiti dell’accanimento contrastato: le polemiche suscitate dal caso Welby, che aveva chiesto ripetutamente l’interruzione della ventilazione forzata che lo sosteneva, stante il carattere terminale della propria distrofia, e dal caso Englaro, una ragazza in coma da oltre quindici anni, alimentata artificialmente nonostante una lotta del padre per la sospensione del trattamento, ne sono la prova. In entrambi i casi le posizione espresse dalla giurisprudenza appaiono aver compiuto decisi passi in avanti sulla qualificabilità come trattamento sanitario degli interventi di ventilazione e alimentazione forzata:

  • la sent. n. 2049 del 2007 del GIP di Roma, dichiarando il non luogo a procedere nei confronti dell’anestesista che staccò la spina a Welby ex art. 51 c.p. (scriminante per adempimento di un dovere), ha affermato che la libera e consapevole scelta del paziente di interrompere la ventilazione è espressione di un diritto personalissimo dell’individuo all’autodeterminazione in tema di trattamenti sanitari;
  • la sent. n. 21748 del 2007 della Prima sezione civile della Corte di Cassazione, cassando con rinvio la sentenza della Corte di appello che aveva respinto la richiesta di sospensione del sostegno alimentare per Eluana Englaro, ha affermato che il giudice può, su istanza del tutore, autorizzare l’interruzione del trattamento sanitario in presenza di due circostanze:
    • la condizione di stato vegetativo del paziente deve essere apprezzata clinicamente come irreversibile, senza alcuna possibilità;
    • deve essere univocamente accertato che il paziente, se cosciente, non avrebbe prestato il suo consenso alla continuazione del trattamento.

Ecco quindi farsi consistente la richiesta di riconoscere legittimità al testamento biologico, nel quale l’individuo possa dare indicazione in ordine agli interventi sanitari che intenda consentire per l’ipotesi in cui non fosse più cosciente a causa di una malattia o di un incidente. Ne potrebbe costituire fondamento di legittimità la Convenzione sulla biomedicina (l. n. 145 del 2001), che prevede che ogni trattamento sanitario è possibile solo nei confronti di cui, adeguatamente informato, abbia espresso il proprio consenso (art. 5) e dispone che i desideri espressi anteriormente in ordine ad un trattamento sanitario da un paziente che al momento del trattamento non è in grado di manifestare la sua volontà saranno presi in considerazione (art. 7).

I progetti di legge attualmente in discussione sul testamento biologico pongono l’accento sul diritto all’autodeterminazione del malato ex art. 32, secondo cui la salute non è un bene che può essere imposto coattivamente da altri, ma deve fondarsi esclusivamente sulla volontà dell’avente diritto. La disciplina dell’eutanasia, tuttavia, entra ontologicamente in contrasto con la disciplina degli artt. 579 (omicidio del consenziente), 580 (istigazione o rafforzamento del proposito al suicidio) e 593 (omissione di soccorso) del codice penale.

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