Superata l’interpretazione letterale dell’art. 3 Cost., che porterebbe a sindacare solo le leggi discriminatorie in relazione ad uno dei sette profili enunciati dallo stesso articolo, la Corte affermò nella sent. n. 15 del 1960 che <<il principio di eguaglianza risulta violato anche quando la legge, senza ragionevole motivo, faccia un trattamento diverso a cittadini in situazioni eguali>>. Si utilizza quindi il criterio della ragionevolezza per sindacare le scelte legislative di equiparazione o differenziazione delle diverse situazioni da regolare, le quali inizialmente erano state ritenute insindacabili dalla Corte, in quanto spettanti alla sfera discrezionale del legislatore. Si pone a questo punto una lettura estensiva dell’art. 3, dal momento che la Corte afferma il proprio sindacato sulle leggi suscettibili di porre discriminazioni irragionevoli.

Il giudizio sulla ragionevolezza, peraltro, si costruisce su uno schema ternario: alla norma ritenuta lesiva del principio di eguaglianza, infatti, si affianca un tertium comparationis, un’altra disciplina assunta come termine di raffronto, in modo da verificare mediante una comparazione tra le diverse discipline se la differenziazione introdotta dalla norma contestata sia ragionevole o arbitraria.

La Corte non si è tuttavia sempre attenuta a tale tecnica: il giudizio di ragionevolezza, infatti, è stato spesso fondato non tanto sul principio di eguaglianza, quanto su altri parametri costituzionali (es. principio di buon andamento della pubblica amministrazione), sganciandosi dal modello ternario per valutare semplicemente l’adeguatezza della norma, sia sotto il profilo della sua coerenza intrinseca che sotto il profilo della sua compatibilità con il sistema normativo entro cui essa è chiamata ad operare. Si è quindi arrivati ad un sindacato sull’eccesso di potere legislativo, che in termini formali esulava dalle competenze della Corte, in quanto appartenente alla sfera politica legislativa. Il giudizio di ragionevolezza ha quindi reso sottile il discrimine tra legittimità e merito della legge, che era stato escluso dall’art. 28 della l. n. 87 del 1953, secondo cui <<il controllo di costituzionalità esclude ogni valutazione di natura politica e ogni sindacato sull’uso del potere discrezionale del Parlamento>>.

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