Il criterio più incisivo per sindacare le scelte del legislatore in ordine all’equiparazione o alla differenziazione di diverse fattispecie venne individuato nel principio di ragionevolezza a partire dalla sent. n. 15 del 1960, dove si riconosceva che il principio di eguaglianza è violato anche quando la legge, senza ragionevole motivo, riservi un trattamento diverso a cittadini che si trovino in situazioni eguali. Da questo si estese la ragionevolezza anche nel senso di giustificare distinzioni basate su uno dei parametri di cui all’art. 3 co. 1 ma ragionevolmente giustificate. In sostanza si riteneva che l’art. 3 vietasse leggi irrazionali che ponevano discriminazioni arbitrarie tra soggetti in situazioni eguali. Si diminuiva quindi la rigidità dell’art. 28 della l. n. 87 del 1953, che escludeva che il controllo di costituzionalità si potesse inserire nelle scelte discrezionali del legislatore.

Il giudizio di ragionevolezza non implica un sindacato sull’opportunità di una certa disciplina, ma un esame sulla sua coerenza rispetto alle norme poste in fattispecie analoghe. Esso ha carattere ternario, come quello di eguaglianza: accanto alla norma lesiva dell’art. 3, infatti, si pone un tertium comparationis in forza del quale possa dirsi che la disciplina in esame sia ragionevole oppure arbitraria. Su tale linea, in particolare, la giurisprudenza costituzionale ha sancito che al paradigma del principio di eguaglianza non può farsi ricorso quando le disposizioni della legge ordinaria dalle quali si trae il tertium comparationis si rivelano derogatorie rispetto alla regola desumibile dal sistema normativo e pertanto insuscettibili di estensione ad altri casi (sent. n. 769 del 1988). In generale, quindi, secondo gli indirizzi della giurisprudenza costituzionale, l’eguaglianza e la ragionevolezza possono essere restaurate mediante il ripristino della normativa generale, ingiustificatamente derogata da quella particolare.

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