Sebbene la necessità di sottrarre i piccoli commercianti agli obblighi gravosi posti per i commercianti sia stata da lungo tempo avvertita dalla pratica, la forte difficoltà di individuare la figura dei primi per distinguerli dai secondi ha sempre complicato la questione. I progetti di definizione di Vivante e di D’Amelio, infatti, e successivamente anche quello del Codice di commercio del 1940, presentavano definizioni vaghe e insufficienti (es. art. 10 del Codice di commercio piccoli commercianti sono coloro che esercitano professionalmente il piccolo commercio e la mediazione ), che finivano per ricalcare sull’entità delle dimensioni che dovevano essere piccole, senza però dire quando dovessero considerarsi tali.

La definizione dell’art. 2083 del Codice civile, anch’essa fortemente generica, non ha certo risolto la questione, tuttavia, il legislatore sembrava aver inteso precisare il concetto mediante la legge sul fallimento del marzo del 1942, che elencava con precisione quali dovevano essere le caratteristiche identificative di un piccolo imprenditore:

  1. l’attività commerciale non doveva essere svolta in società.
  2. il reddito relativo all’impresa doveva essere accertato dall’amministrazione finanziaria in misura inferiore al minimo imponibile.
  3. nel caso mancasse tale accertamento, il capitale investito non doveva superare le 900.000 lire.

Nonostante la questione sembrasse risolta, a complicarla nuovamente è intervenuta la riforma della materia tributaria che, eliminando l’imposta sul reddito relativo all’impresa ed introducendo invece l’imposta sul reddito complessivo, ha di fatto abrogato uno dei tre criteri per l’identificazione del piccolo imprenditore, in particolare il secondo (2). Considerando poi che il criterio del conteggio del capitale investito era dichiaratamente subordinato alla mancanza di un accertamento non più praticato, anche il terzo criterio di identificazione sembrava essere implicitamente abrogato. La Corte costituzionale, infatti, nel 1989 ha dichiarato l’incostituzionalità di questa terzo criterio, con la motivazione che il limite imposto di 900.000 lire, in seguito alla svalutazione monetaria, non consentiva la realizzazione delle finalità della norma (3).

La dottrina metteva inoltre in evidenza il fatto che l’ultima parte dell’art. 2083, che faceva esplicitamente riferimento al lavoro dei componenti della famiglia, era difficilmente conciliabile con il primo criterio di identificazione del piccolo imprenditore, l’unico rimasto in vigore, che negava lo svolgimento in società dell’attività commerciale. Relativamente a questo punto, tuttavia, la Corte costituzionale ha rigettato la domanda di incostituzionalità, negando la fondatezza della questione.

In questa situazione è sopraggiunto il d.lgs. n. 5 del 2006 che, modificando la legge sul fallimento, sembra aver rimesso a posto la materia. Due sono i punti principali di tale decreto legislativo:

  • si torna a fare riferimento al capitale investito, negando la qualità di imprenditore a chi:
    • abbia fatto investimenti per un capitale superiore a 300.000 euro, in forma individuale o collettiva.
    • abbia realizzato ricavi lordi, calcolati sulla media degli ultimi tre anni o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, per un ammontare complessivo annuo superiore ai 200.000 euro.
    • si elimina il principio per cui il piccolo imprenditore non può operare in società, abolendo così l’unico criterio di intensificazione della legge del 1942 rimasto ancora valido (1).

Tale risistemazione, tuttavia, presenta un grosso ostacolo alla soluzione del problema di identificazione del piccolo imprenditore. Il decreto legislativo, infatti, ha sancito il principio per cui queste disposizioni possono essere utilizzate solo ai fini dell’individuazione dell’imprenditore fallito.

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