Autentiche espropriazioni di fatto, iniziate con occupazioni d’urgenza mai seguite da decreto ablativo, hanno dato vita a numerose controversie nelle quali i privati, costretti dall’impossibilità di riportare gli immobili, nel frattempo corredati di opere, al godimento originario, domandavano il ristoro patrimoniale corrispondente al valore dei beni perduti.

Cass. S.U. 1464/1983 ha affermato che l’occupazione di un immobile, rivelatasi illegittima e seguita da una radicale trasformazione dello stesso per l’esecuzione di un’opera pubblica, produce un acquisto a titolo originario dell’immobile da parte della p.a. ed in pari tempo attribuisce al privato il diritto al risarcimento del danno consistente nella perdita del diritto di proprietà.

Il principio così formulato è stato disatteso da Cass. 3872/1987, negando che possa darsi un acquisto a titolo originario nei termini configurati dalle Sezioni unite.

Le Sezioni unite sono state allora chiamate a ripronunciarsi, e con sentenza 3940/1988 hanno ribadito i princìpi di diritto formulati nella 1464/1983.

È contraddittoria l’affermazione di metodo da essa desumibile, secondo la quale uno stesso fatto può ben fondare un effetto acquisitivo a titolo originario ed essere in pari tempo illecito.

La Suprema corte richiama sul punto il 939 (Unione e commistione) commi II e III, ma le disposizioni citate prevedono in primo luogo l’obbligo di pagare il valore di una cosa a seguito dell’acquisto della stessa per unione o commistione, e solo in via eventuale (colpa grave) ed aggiuntiva il risarcimento del danno.

L’argomento non ha perciò alcun peso.

{Diversa è la tesi avanzata da Salvatore Sangiorgi, il quale individua il 939 come regola di soluzione del conflitto, in maniera analoga a quanto noi proponiamo col 938 (Occupazione di porzione di fondo attiguo)}.

Né maggiore ne ha quello tentato da Cass. S.U. 3940/1988, per asseverare la stessa contraddizione: il risarcimento previsto dal 70 l. 2358/1865 per i danni subiti dal proprietario in conseguenza dell’occupazione temporanea ne presuppone una che tale sia e rimanga, non un’occupazione ablativa.

A far risaltare la contraddizione basta rilevare che la Corte identifica il risarcimento con quello per equivalente: questo perché il risarcimento in forma specifica, che dovrebbe conseguire al fatto illecito in alternativa a quello per equivalente, in quanto trasferimento all’indietro della proprietà dell’immobile, sarebbe la completa smentita dell’effetto acquisitivo.

Il risultato è dunque un fatto illecito che dà vita ad un effetto acquisitivo ma rimane illecito perché obbliga al risarcimento del danno, risarcimento che però può essere solo per equivalente.

Un altro vizio metodologico affetta la sentenza 1464/1983, che pure la sentenza 3940/1988 condivide: la ricerca di un principio generale atto a risolvere il conflitto tra p.a. e soggetto privato ed il ritrovamento di esso nella disciplina degli artt. 934 ss. c.c., quando in ipotesi la stessa Corte li ritiene inapplicabili perché dettati a disciplinare rapporti tra privati.

Il principio generale è l’attribuzione della proprietà sia del suolo sia della costruzione al soggetto portatore dell’interesse ritenuto prevalente, secondo una valutazione economico-sociale correlata al livello di sviluppo della società civile.

Esso potrebbe reputarsi formalmente corretto se la Corte non identificasse tout court il soggetto portatore dell’interesse prevalente con la p.a.

Queste considerazioni ci indussero ad affermare l’applicabilità diretta del 936 (Opere fatte da un terzo con materiali propri).

Peraltro tale norma metterebbe il privato nella necessità di pagare alla p.a. il valore delle opere eseguite sul bene, risultando improbabile l’alternativa domanda di rimozione, la quale presuppone oltre tutto che il proprietario non sia stato a conoscenza del compimento delle opere stesse.

Un esito del genere è insoddisfacente sul piano pratico perché, oltre alla difficoltà costituita dal valore delle opere, difficilmente esse sarebbero interessanti per il privato.

Cass. 3872/1987 ha affermato che la proposizione della domanda di risarcimento del danno contro la p.a. denota una chiara volontà del privato di abbandonare il diritto di proprietà in favore dell’occupante.

Ma la rinuncia alla proprietà toglierebbe fondamento alla domanda di risarcimento.

Ed il richiamo di alcune norme a coonestare l’esistenza di un principio che consenta l’abbandono della proprietà in favore di altri {550: Lascito eccedente la porzione disponibile; 1070: Abbandono del fondo servente; 1104: Obblighi dei partecipanti} non sconta che tutt’altri sono gli effetti che dall’abbandono tali norme fanno conseguire.

Occorre allora ritornare alla disciplina dell’accessione per accertare se essa non sia suscettibile di migliore applicazione di quella finora ricevuta.

Perché il rinvio all’accessione risulti attendibile occorre peraltro eliminare anzitutto la contraddizione tra illecito ed effetto acquisitivo.

Non c’è dubbio che sia illecita un’occupazione la quale dovrebbe essere temporanea ed invece si converte in un’espropriazione di fatto; è invece inaccettabile che tale debba rimanere la qualificazione giuridica pur quando all’occupazione si aggiungano le opere realizzate sull’immobile.

Tutti i comportamenti che danno vita all’accessione sono originariamente illeciti perché illecito è il costruire o piantare cose altrui sul fondo proprio, o cose proprie sul fondo altrui, o cose altrui sul fondo di altri (935, 936, 937), così come illecita è l’occupazione di un fondo attiguo con una costruzione (938).

Ma come dalla concrezione fisica tra cose appartenenti a soggetti diversi nasce un bene naturalisticamente concepibile come unico, così dalla forma giuridica che tale concrezione veste nasce un effetto acquisitivo che si chiama accessione, nella quale la stessa attribuzione a titolo originario della proprietà cancella l’iniziale illiceità.

Se dunque nell’accessione l’illiceità originaria viene per così dire neutralizzata nel fatto acquisitivo, perde ogni giustificazione formale la distinzione operata dalla Cassazione tra occupazione temporanea dell’immobile illecitamente protratta e compimento di opere sul medesimo perché la prima rileva solo in funzione delle seconde, le quali danno vita all’acquisto a titolo originario.

Eliminata la contraddizione tra illiceità ed effetto acquisitivo, rimane da fondare l’accessione in favore della p.a. nel momento in cui contro l’acquisto così disegnato sembra porsi il 936 c.c., che un’accessione prevede bensì, ma in favore del proprietario del fondo.

L’analogia iuris adottata dalle Sezioni unite è arbitraria nel momento in cui converte il criterio oggettivo, di prevalenza economica dell’interesse, pur accettabilmente ricavato dalla disciplina dell’accessione contenuta nel Codice civile, in uno soggettivo nel quale a prevalere sia in ogni caso la p.a.

Invece il 938 (Occupazione di porzione di fondo attiguo) sembra meno genericamente invocabile a fondare l’accessione invertita in favore della p.a. e l’analogia pur necessaria sarà analogia legis e non più analogia iuris.

Esso non solo prevede l’accessione invertita, ma pure la rimette al potere del giudice, che la pronunzierà tenuto conto delle circostanze.

Il ricorso alla norma menzionata comporta una difficoltà pratica, rappresentata dall’obbligo del costruttore di pagare al proprietario il doppio del valore della superficie occupata, nonché una giuridico-formale, costituita dalla fattispecie normativa, la quale si riferisce all’occupazione in buona fede di porzione di fondo attiguo.

Né l’una né l’altra appaiono però insormontabili.

La prima rifluisce nella politica del diritto, la quale non è ex se in grado di impedire l’applicazione di una norma.

La seconda attiene invece alla possibilità di ricavare dalla fattispecie normativa dei lineamenti essenziali nei quali il caso concreto possa immedesimarsi ai fini dell’applicazione analogica.

Sul punto sembra che l’attiguità del fondo occupato costituisca un elemento di specie necessario a fornire giustificazione oggettiva alla buona fede, onde se nel caso concreto tale caratteristica manchi ma altra ve ne sia, in grado di svolgere la stessa funzione, l’analogia potrà dirsi verificata e l’applicazione conseguirne.

Orbene la pubblica amministrazione occupa l’immobile in base ad un titolo, pur interinale qual è l’occupazione d’urgenza, e nonostante non faccia seguire il decreto di espropriazione, compie l’opera nella consapevolezza che prima o poi il fondo passi in sua mano.

L’analogia porta inevitabilmente qualche forzatura perché le somiglianze non sono mai identità.

Ognuna delle soluzioni tentate presenta delle perplessità.

In ogni caso, ove pure la giurisprudenza volesse attenersi alla “sua” accessione, radicata nell’analogia iuris, l’accessione invertita non ha nulla da spartire con la disciplina della responsabilità civile.

Ma non è questo l’orientamento fatto proprio dal legislatore quando è intervenuto.

La l. 458/1988 ha previsto al 3 che Il proprietario del terreno utilizzato per finalità di edilizia residenziale pubblica, agevolata e convenzionata, ha diritto al risarcimento del danno causato da provvedimento espropriativo dichiarato illegittimo con sentenza passata in giudicato, con esclusione della retrocessione del bene. […].

La fattispecie della norma risultava limitata rispetto alla realtà che occorreva disciplinare: essa infatti tralasciava l’ipotesi più grave ed originaria nella quale all’occupazione d’urgenza non era seguito il provvedimento espropriativo.

Così, glorificata dal legislatore, la Cassazione (12546/1992) ha potuto ribadire la natura di fatto illecito dell’occupazione espropriativa.

Ma quel che in partenza è un illecito subisce una transustanziazione ad opera dell’ordinamento.

Ne mostra chiara consapevolezza Cass. 10979/1992, la quale esclude la natura risarcitoria dell’obbligazione della p.a. ed afferma il sorgere di essa da una delle variae causarum figurae che il 1173 (Fonti delle obbligazioni) pone a fonti dell’obbligazione accanto al contratto ed al fatto illecito.

La Corte costituzionale, risolvendo (486/1991) una questione di legittimità costituzionale del 3 l. 458/1988, ha correttamente ampliato la portata della norma estendendone l’applicabilità alle ipotesi in cui l’occupazione illegittima e la destinazione irreversibile del terreno si siano verificate senza l’emissione del decreto di esproprio.

In tal modo, però, il modello risarcitorio assunto dalla legge ha ricevuto un ulteriore riconoscimento.

In un’altra sentenza (369/1996) ha portato alle estreme conseguenze la qualificazione di illiceità dell’occupazione espropriativa, ritenendo illegittima una norma di legge successiva nella parte in cui disponeva la sostanziale sostituzione dei criteri di liquidazione del danno da risarcire coi criteri di determinazione dell’indennizzo da espropriazione in tutti i casi in cui non fosse stata ancora determinata in via definitiva l’entità del risarcimento, e ribadendo la natura risarcitoria del ristoro dovuto al proprietario vittima dell’occupazione illegittima.

Quanto al legislatore, esso doveva evitare di dare vita all’antinomia di un nuovo modo di acquisto della proprietà nel quale la prestazione dovuta al proprietario spodestato è ancora l’effetto di un fatto illecito, cioè il risarcimento del danno.

Questo va ribadito anche a riguardo del 43 T.U. in materia di espropriazione per pubblica utilità (d.p.r. 327/2001): tale norma consente ancora alla p.a. di violare il diritto altrui, prevedendo che l’autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può disporre che esso vada acquisito al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario vadano risarciti i danni.

Pare difficile che la norma possa superare il vaglio di legittimità costituzionale, nel momento in cui fa dipendere l’acquisto da parte di una “autorità” dal puro fatto (illecito) che il bene sia utilizzato per scopi di interesse pubblico e sia stato modificato in assenza di un valido provvedimento di esproprio o di dichiarazione di pubblica utilità, e per la sola volontà dell’autorità medesima.

Si prevede infatti in questi termini un’appropriazione senza espropriazione, e questo non pare conforme col 42.3 Cost.

Non vale perciò in proposito l’affermazione di conforto formulata ultimamente dalla Cassazione (11096/2004), secondo la quale il 43 d.p.r. 327/2001, descrivendo un fenomeno sia pure parzialmente diverso dall’occupazione illegittima, ha dato finalmente ulteriore regolamentazione, chiara accessibile e prevedibile, all’appropriazione di suoli privati utilizzati a fini pubblici.

Quando pur si ristori la perdita subita, rimane la violazione del diritto altrui, la quale continua e si porta a compimento con la mera volontà dell’autorità di disporre che il bene vada acquisito al suo patrimonio indisponibile; alla quale si fa seguire una riparazione che lo stigmatizza definitivamente come illecito.

Non colposo, ma doloso: cosa inaccettabile in ogni caso, ma certo ancor di più quando è preso in considerazione come frutto sistematico di una condotta dei pubblici poteri, per la quale la Costituzione sembra invece prevedere come legittima solo l’espropriazione.

La Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU), chiamata a giudicare l’occupazione sine titulo nei termini in cui essa era venuta configurandosi nel diritto giurisprudenziale nazionale, con due pronunce ha fissato i termini nei quali può ritenersi rispettata la legalità.

Da un lato, in generale, un diritto vivente che ha condotto ad applicazioni contraddittorie potrebbe portare ad un risultato imprevedibile ed arbitrario, incompatibile col principio di legalità.

Dall’altro, nel merito, l’atto del Governo italiano non è un esproprio: trattasi di una confisca da parte dello Stato, cui il privato non ha potuto porre riparo.

Ove pure si ritenesse che mediante il risarcimento accordato al privato si attuerebbe l’equo bilanciamento che la norma richiamata pur prevede come ulteriore requisito della legittimità dell’ingerenza, la Corte europea precisa che la questione dell’equo bilanciamento non può porsi che una volta che sia stato accertato che l’interferenza contestata abbia rispettato il principio di legalità.

Proprio la legalità che manca ab origine all’occupazione, che solo successivamente sia diventata espropriativa, quando non usurpativa.

{Ove per “usurpazione” s’indica l’occupazione per la quale sia rimasta non dichiarata dalla p.a. la pubblica utilità, mentre “occupazione espropriativa” designa un’occupazione che sia qualificata ad un certo punto dalla pronuncia di pubblica utilità, alla quale non sia seguita però il decreto di esproprio}.

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