Se è il primato del mercato a predicare la mobilitazione forte della funzione di Governance, e se in questo modo si afferma il ruolo preponderante di amministrazioni tecniche e neutrali, la crescente autoreferenzialità delle amministrazioni pubbliche non può comunque prescindere dalla formalità del diritto. Un esempio di come questi due profili si intreccino pericolosamente nel nostro paese è offerto dal CIPE che, da un lato, definisce le linee strategiche di maggior rilievo in riferimento al commercio nazionale, comunitario ed internazionale, mentre dall’alto svolge un ruolo funzionale di tipo sostanzialmente normativo: ecco che quindi risulta enfatizzato il ruolo di Governance giocato dal CIPE. Un altro esempio è fornito dalle ordinanze delle pubbliche amministrazioni, che costituiscono un utile indicatore per misurare il percorso di crescita degli apparati amministrativi. Anche qui si ripropone il controverso problema del rapporto fra attività ed atti dell’amministrazione e principio di legalità. A quest’ultimo proposito si può considerare accolta la tradizionale impostazione della dottrina (Sandulli), secondo cui occorre distinguere, nell’ambito della categoria generale, le cd. ordinanze libere in senso stretto, cioè quelle previste in campi espressamente e specificamente indicati dal legislatore, dalle cd. ordinanze di necessità e urgenza, previste dalla legge per fronteggiare casi eccezionali di particolare gravità. In entrambi i casi, comunque, resta fermo il divieto di violare la costituzione e di principi generali dell’ordinamento, anche quando si tratti di ordinanze autorizzate ad introdurre una disciplina derogatoria rispetto alla fonte primaria. Quindi, come si comprende, il problema è sempre quello dato dalla necessità di coniugare le ragioni della legalità con quelle dell’esercizio della funzione pubblica. Naturalmente c’è sempre una legge, una norma che autorizza le amministrazioni pubbliche ad adottare ordinanze di urgenza, in presenza di una serie di eventi che devono essere fronteggiati e, di fronte ai quali, l’amministrazione non può non assumere una decisione. Il problema è, però, quello del rapporto esistente tra la fonte primaria (che legittima il potere di ordinanza) e il potere (cioè la discrezionalità) degli apparati amministrativi. Oggi questo rapporto è davvero molto labile, poiché la formulazione della fonte delegificante è tendenzialmente molto generica, il che aumenta la potestà di apprezzamento discrezionale di cui le amministrazioni possono avvalersi. Infatti, neanche il complesso dei limiti e delle cautele predisposte dall’ordinamento (ad esempio l’impossibilità di regolare, con ordinanza libera, una fattispecie coperta da riserva di legge) è sufficiente, poiché lo stesso si risolve semplicisticamente, nella maggior parte dei casi, in un obbligo di motivazione dell’ordinanza.

Quindi il potere di ordinanza extra ordinem si risolve nell’attribuzione di delicatissimi poteri e prerogative di autonomia alle amministrazioni pubbliche: una sostanziale libertà che deve essere in qualche modo conformata dai principi dello Stato di diritto, primo fra tutti quello della ragionevolezza. Pertanto la discrezionalità è misurata funzionalmente dal risultato che si vuole o si deve raggiungere, ma si sostanziale della ragionevolezza intesa come razionalità del procedimento.

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