Circa settant’anni fa, Francesco Carnelutti teneva un discorso intitolato “clinica del diritto”; l’illustre giurista prendeva così di mira l’astrattezza del modo con cui si insegna la giurisprudenza all’università.

I professori insegnano agli studenti qualcosa che somiglia alla fisiologia o alla patologia, probabilmente non vi è tra gli insegnamenti giuridici qualcosa che corrisponde al concetto dell’anatomia; tuttavia una cosa è certa non esiste in alcun modo una “clinica del diritto”.

Eppure, come per i medici il caso è il malato, così per i giuristi il caso è dato dal litigio fra due uomini; tanto che si potrebbe essere indotti a stabilire un parallelismo tra medicamento e ordinamento e quindi tra clinica medica, come scuola per i medici che curano i corpi, e clinica del diritto, come scuola per il giurì di che curano le relazioni interpersonali.

Un lato significativo del confronto tra medicina e diritto riguarda il trattamento del malato e del litigante poveri: lo Stato fornisce all’uno e all’altro la cura o la difesa gratuita ma, mentre l’assistenza del medico è completa e di prima qualità, quella del giurista è scadente e parziale.

Da una parte l’assistenza giuridica, che oggi è limitata alla difesa nel processo, dovrebbe comprendere anche la consulenza contenziosa e contrattuale; dall’altra il postulare, il cavere, il rispondere, dovrebbe essere nei limiti del possibile ha affidato ai maestri del diritto.

Per la decisione del caso si prospettano due possibili procedure: quella per deduzione dal precetto della legge oppure quella per confronto delle ragioni dei litiganti.

1) la fiducia senza riserve nella deduzione legale, dominante dall’avvento del codice Napoleone, ha portato a concepire l’ordinamento come il risultato del sovrapporsi di un ordine virtuale, quello della volontà pubblica, di cui le leggi sono espressione, sul disordine reale, quello delle volontà private si sono accavallate.

Per la verità qualche riserva era stata avanzata 100 anni prima da Giambattista Vico il quale invitava a diffidare dell’utilizzabilità del metodo deduttivo nella civile prudenza, della quale è necessario ricercare quante più cause di un solo fatto per capire quale sia quella vera. Nel campo della giurisprudenza i dotti che dai veri universali discendono direttamente ai veri particolari, restano impigliati nelle contingenze della vita.

Dunque procedono erroneamente coloro che adottano nella prassi della vita il metodo di giudicare proprio della scienza, infatti essi misurano infatti secondo la retta ragione, mentre gli uomini non si regolano secondo decisioni razionali.

A 200 anni di distanza, la fiducia nella deduzione legale sembra essere incappata in una crisi profonda, segnalata da quella che Natalino Irti ha definito come la tendenza alla decodificazione.

2)
Tutto ciò ha fatto riaffiorare il processo dell’ordinamento per confronto delle ragioni dei litiganti. Anche nella prospettiva dell’ermeneutica persiste una concezione meramente virtuale dell’ordinamento giuridico, non tanto perché lo si riduce al sovrapporsi della volontà pubblica sulla volontà privata, ma perché lo si intende come il prodotto di un’operazione meramente concettuale.

La rilevanza giuridica dell’agire del singolo non trova quindi nella sua persona la ragione e il fondamento, ma si manifesta nel suo lasciarsi qualificare da parte dell’interprete, sulla base di criteri posti dal legislatore.

Per concludere Gentile fa una citazione provocatoria di una commedia di Molière: “non vedo niente di più grottesco di un uomo che pretende di guarire un altro uomo, quando ci si ammala non c’è altro da fare che fermarsi, sarà la natura stessa che un po’ alla volta si solleva dal disordine in cui è caduta”, citazione che dovrebbe essere rivolta alle scuole che producono giuristi affinché si recuperi, al di là della virtualità, la realtà o la natura.

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