Perché l’estrinsecazione del sentimento religioso possa ricevere dallo Stato una tutela adeguata, è necessario che il pluralismo si traduca in effettivo assetto politico-costituzionale. L’attenzione del legislatore, quindi, deve spostarsi dal piano delle istituzioni a quello della pluralità di soggetti sottostante al fatto religioso giuridicamente rilevante. Questa costante interazione tra individuo e gruppo impedisce che la regolamentazione dei rapporti tra Stato e confessioni sia archiviata come strumento inefficace per la risoluzione dei conflitti relativi all’esperienza religiosa, proprio perché dimostra che, in una società complessa, la problematica della tutela della persona non può esaurirsi all’interno della dialettica Stato-individuo. In questa prospettiva, tenuto conto che in una società pluralista la diversità è un valore da difendere, occorre comunque che lo Stato non venga meno al proprio dovere fondamentale di promozione dell’uguaglianza: in un sistema costituzionale che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali (art. 2), il principio di uguaglianza (art. 3) non può non essere il principio cardine.

Quello che emerge dal contesto della normativa internazionale è che la professione di fede non può giustificare alcuna discriminazione nella società, nella famiglia, nella scuola e nel mondo del lavoro. A livello internazionale, quindi, l’uguaglianza in materia di religione sembrerebbe far riferimento ad un principio di non discriminazione, nella convinzione che la discriminazione tra esseri umani per motivi di religione costituisce un’offesa alla dignità umana

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