I comportamenti che costituiscono atti di concorrenza sleale sono definiti dall’art. 2598 del codice civile.

È atto di concorrenza sleale ogni atto idoneo a creare confusione con i prodotti o con l’attività di un concorrente.

È lecito attrarre a sé l’altrui clientela, ma non è lecito farlo avvalendosi di mezzi che possono trarre in inganno il pubblico sulla provenienza dei prodotti e sull’identità personale dell’imprenditore. Molteplici sono le tecniche e le pratiche che un imprenditore può portare in atto per realizzare la confondibilità dei propri prodotti con l’attività di un concorrente. Il legislatore ne individua espressamente due:

  1. l’uso di nomi o di segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni

distintivi legittimamente usati da altri imprenditori concorrenti

  1. l’imitazione servile dei prodotti di un concorrente, vale a dire la pedissequa riproduzione delle forme esteriori dei prodotti altrui, attuata in modo da indurre il pubblico a supporre che i due prodotti – l’originale e l’imitato – provengono dalla stessa impresa.

La seconda vasta categoria di atti di concorrenza sleale comprende:

  1. a) gli atti di denigrazione, che consistono nel diffondere notizie sui prodotti e sull’attività di un concorrente idonei a determinarne il discredito
  2. b) l’appropriazione di pregi dei prodotti dell’impresa di un concorrente.

Comune ad entrambe le figure è la finalità di falsare gli elementi di valutazione del pubblico attraverso l’arma della pubblicità.

Diverse sono però nei due casi le modalità con cui tale finalità è perseguita: con la denigrazione si tende a mettere in cattiva luce i concorrenti danneggiando la loro reputazione, mentre con la vanteria si tende invece ad incrementare artificiosamente il proprio prestigio.

Esempio classico di concorrenza sleale per denigrazione è la pubblicità superaltiva con cui si tende ad accreditare l’idea che il proprio prodotto sia il solo a possedere specifiche qualità che invece vengono implicitamente negate ai prodotti dei concorrenti (ad esempio “il caffè X è l’unico che non provoca danni al cuore”).

Lecita è invece la generica affermazione di superiorità dei propri prodotti (ad esempio “il panettone M è IL panettone).

Non sempre costituisce invece atto di concorrenza sleale la pubblicità comparativa.

In passato era controverso se la pubblicità comparativa fosse sempre illecita oppure dovesse ritenersi consentita a determinate condizioni.

La comparazione è lecita quando è fondata su dati veri ed oggettivamente verificabili, non ingenera confusione sul mercato e non comporta discredito o denigrazione del concorrente.

La pubblicità comparativa non si può quindi ritenere vietata in modo assoluto.

Altri mezzi denigratori sono, invece:

la pubblicità parassitaria, consistente nella mendace attribuzione a se stessi di qualità, pregi, riconoscimenti che in realtà appartengono al concorrente;

la pubblicità per riferimento, che consiste nel far credere che i propri prodotti siano simili a quelli del concorrente, attraverso l’uso di espressioni come tipo, modello, sistema (es. pezzo di ricambio tipo Fiat), al fine di avvantaggiarsi indebitamente dell’altrui rinomanza commerciale.

 

Gli altri atti di concorrenza sleale

L’art. 2598 chiude l’elencazione degli atti di concorrenza sleale menzionando “ ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda”.

Con ciò il legislatore affida al giudice il compito di valutare se un comportamento concorrenziale, diverso da quelli elencati, sia o meno eticamente professionale.

Fra gli atti contrari alla correttezza professionale vi è la pubblicità menzognera, cioè la falsa attribuzione ai propri prodotti di qualità o pregi non appartenenti ad alcun concorrente, quando il messaggio pubblicitario sia tale da trarre in inganno il pubblico con danno potenziale a tutti i concorrenti.

Poi la giurisprudenza ha individuato altre forme di concorrenza sleale:

– la concorrenza parassitaria, che consiste nella sistematica imitazione delle altrui iniziative imprenditoriali ;

– il boicottaggio economico, cioè il rifiuto ingiustificato ed arbitrario di un’impresa in posizione dominante sul mercato (boicottaggio individuale) o di un gruppo di imprese associate (boicottaggio collettivo) di fornire prodotti a determinati rivenditori, in modo da escluderli dal mercato;

– il dumping, cioè la sistematica vendita sotto costo dei propri prodotti;

– la sottrazione ad un concorrente di dipendenti o collaboratori particolarmente qualificati, quando venga attuata con mezzi scorretti e col deliberato proposito di trarne vantaggio con danno all’altrui azienda;

– la violazione di segreti aziendali, cioè la rilevazione a terzi e l’acquisizione o l’utilizzazione da parte di terzi, in modo contrario alla correttezza professionale, delle informazioni aziendali segrete.

 

Le sanzioni

La repressione degli atti di concorrenza sleale si fonda su due distinte sanzioni:

  1. l’inibitoria, cioè la cessazione delle turbative alla propria attività e di ottenerla, se possibile, prima che l’atto gli abbia causato un danno patrimoniale. L’azione inibitoria e le relative sanzioni prescindono dal dolo o dalla colpa del soggetto attivo dell’atto di concorrenza sleale e dall’esistenza di un danno patrimoniale attuale del soggetto passivo; art. 2599 ;
  2. il risarcimento dei danni, art. 2600.

Fra le misure risarcitorie il giudice può disporre anche la pubblicazione della sentenza in uno o più giornali a spese del soccombente.

L’azione per la repressione della concorrenza sleale può essere promossa dall’imprenditore o dagli imprenditori lesi, e dalle associazioni professionali degli imprenditori quando gli atti pregiudichino gli interessi di una categoria professionale, art. 2600 .

Non sono legittimati invece i consumatori o loro associazioni.

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