La l. 89/2001 (c.d. Legge Pinto) ha ad oggetto una Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo.

Il rimedio dell’equa riparazione sembra fin dal titolo della legge voler significare la deviazione dal modello risarcitorio, nonostante che venga prevista pure la riparazione del danno non patrimoniale.

Ma la legge precisa che Il giudice determina la riparazione a norma dell’articolo 2056 del codice civile [Valutazione dei danni].

Ora il 2056 è la norma che detta i criteri di valutazione del danno nei fatti illeciti ed in particolare contiene il rinvio al 1223, specificamente rubricato “Risarcimento del danno”.

Ne risulta una palese antinomia tra l’equa riparazione, che è categoria diversa dal risarcimento del danno, e la disciplina che le si è voluta applicare, la quale è proprio disciplina del risarcimento.

La legge non ha, comunque, riputato necessario il ricorrere di un criterio di imputazione: non si fa parola né di colpa né di dolo né è ricavabile alcun altro criterio di imputazione che possa far pensare ad una responsabilità oggettiva.

Questo collima perfettamente con l’equa riparazione, della quale lo stesso Codice civile ci fornisce precedenti nei quali essa ricorre in ipotesi in cui chi vi è tenuto non lo è in termini di responsabilità.

La giurisprudenza nelle prime decisioni si è ridotta all’osservanza di un modello di riparazione che non vede alternative alla responsabilità da fatto illecito (così, ad es., App. Torino 5 settembre 2001, decr.).

Invece il modello istituito dalla l. 89/2001 è stato inteso del tutto correttamente dalla Cassazione (13768/2002), la quale ha affermato che l’equa riparazione forma oggetto di una obbligazione dello Stato ex lege e non ex delicto […] avente natura propriamente indennitaria, come si evince già sul piano testuale, dall’assenza di riferimento all’elemento soggettivo […] e dai richiami, invece, all’equità […] e dalla stessa adozione del termine indennizzo.

Molto opportunamente peraltro in una sentenza di poco precedente la Cassazione (1173/2002) aveva affermato che il danno, patrimoniale e non patrimoniale, è elemento costitutivo del diritto all’equa riparazione, ritenendo evidentemente non incompatibile con quest’ultima il riferimento al primo.

La legge si limita a costruire la fattispecie su un fatto che nella sua oggettività costituisca violazione del termine ragionevole: non è necessario che tale violazione sia imputabile a taluno, ma è sufficiente che la durata appaia irragionevole perché il processo risulti in violazione del diritto previsto e tutelato dal 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

La mancanza di un criterio di imputazione fa ritenere che, nonostante il rinvio al 2056, l’equa riparazione non sia un risarcimento e perciò il modello di tutela non sia quello della responsabilità.

L’equa riparazione intende ristorare chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di violazione della Convenzione.

La previsione, accanto al danno patrimoniale, di quello non patrimoniale, dal punto di vista sistematico sembra asseverare l’idea che ormai quando si fa questione di danni l’atteggiamento dell’ordinamento anche sul terreno legislativo è di ritenere non più attuale l’idea che il danno non patrimoniale possa essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge.

Questa considerazione non perde il suo valore, anzi semmai lo rafforza, se si accetta l’idea da noi sostenuta che la disciplina di cui è questione non ha adottato il modello responsabilità, ma quello del ristoro equitativo: rileva infatti, a prescindere dal modello riparatorio, che il danno non patrimoniale trovi riconoscimento a pari titolo accanto a quello patrimoniale.

Ma il danno non patrimoniale soffre di una difficoltà strutturale consistente nell’intraducibilità diretta in valore economico, la quale ha come corollario la difficoltà di fornirne la prova.

Questo spiega perché si tenda ad accreditare l’idea che il danno non patrimoniale coincida con la lesione medesima della situazione soggettiva tutelata e che per esso non abbia senso porsi una questione di danno come conseguenza della lesione, come impone il 1223 per il danno patrimoniale (Risarcimento del danno).

In materia di danno alla persona abbiamo manifestato l’idea che il 2059 (Danni non patrimoniali) costituisca per il danno non patrimoniale il corrispondente del 1223, sicché anche con riguardo al danno non patrimoniale si darebbe la diade danno evento – danno conseguenza, con la necessità di dare la prova anche del danno conseguenza alla stessa maniera del danno patrimoniale.

Questa tesi ha trovato la sua massima espressione giurisprudenziale nella sentenza 372/1994 della Corte costituzionale, la quale richiamò alla necessità di rispettare il modello responsabilità anche in materia di danno alla salute, in contrapposizione con la sentenza 184/1986 della stessa Corte, la quale aveva invece affermato che il danno alla salute è in re ipsa, con questo intendendo che, provata la lesione, in questa medesima consiste il danno da risarcire.

La Cassazione a Sezioni unite (1338/2004) si è trovata ad affrontare una questione in materia di danno non patrimoniale da lesione del diritto alla durata ragionevole del processo, questione consistente in ciò: se nel sistema introdotto dalla l. 89/2001 il danno non patrimoniale vada identificato nella stessa violazione del diritto alla ragionevole durata del processo e perciò consegua automaticamente all’accertamento di tale violazione, ovvero se al contrario tale danno debba formare oggetto di prova da parte del ricorrente.

Le Sezioni unite da un lato negano che si possa accogliere l’idea del danno in re ipsa, dall’altra affermano però che, poiché le conseguenze non patrimoniali possono ritenersi presenti secondo l’id quod plerumque accidit, deve parlarsi di prova del danno di regola in re ipsa.

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