E’ possibile individuare, accanto alla proprietà solitaria, la comproprietà, caratterizzata dal fatto che più soggetti siano titolari del medesimo diritto di proprietà sulla cosa. Ugualmente complesso ma differente è lo schema in base al quale più soggetti sono titolari o contitolari di più diritti reali, di contenuto strutturalmente diverso, sulla medesima cosa, come capita, ad es., nel concorso tra il diritto (maggiore di proprietà) e quello (minore) di servitù.

Lo schema può essere così:

a)       contitolarità di un diritto reale sulla medesima cosa

b)      concorso tra più diritti, strutturalmente diversi, aventi in comune come oggetto la stessa cosa (proprietà e iura in re aliena)

Nella seconda ipotesi si presuppone assenza di conflitto, quindi l’esistenza di una regola che ne disciplini l’esercizio, che può manifestarsi sia con l’imposizione di reciproche limitazioni, sia con l’attribuzione ad un diritto di una posizione di rango superiore rispetto all’altro. Così si può avere un diritto minore (derivato) quale l’usufrutto che, assorbendo per intero il potere di godimento sulla cosa, assumerà un rango migliore rispetto al diritto (madre) di proprietà. Non vi potrà essere concorso tra diritti reali caratterizzati dall’esclusività se non sotto la veste della comunione.

Conviene ricordare che nel nostro ordinamento giuridico manca una disciplina generale sulla contitolarità e solo con riferimento ai diritti reali sono state dettate norme destinate a fissare poteri di amministrazione e regole di funzionamento attuate col ricorso al principio di maggioranza. Appare più opportuno segnalare la diversità che sussiste tra la contitolarità dei diritti reali e la contitolarità dei rapporti personali (concredito): in questi ultimi la realizzazione dell’interesse è lasciata all’iniziativa dei singoli contitolari. Le due ipotesi manifestano sul piano funzionale esigenze diverse in quanto, mentre la comunione dei diritti reali è tendenzialmente perpetua, la comunione del credito è solo temporanea essendo destinata a cessare con l’attuazione del rapporto obbligatorio.

Dal combinato disposto dagli artt. 1101 e 1104 cc. si desume che i comproprietari contribuiscono nelle spese comuni in proporzione delle rispettive quote. Invero non vi sono argomenti per far ritenere che il criterio di riparto interno si manifesti all’esterno come attuazione di una obbligazione parziaria.

Più delicato è il problema posto dall’art. 1115 cc., secondo il quale in sede di divisione

1) il partecipante può esigere che siano estinte le obbligazioni in solido contratte per la cosa comune, le quali siano scadute o scadano entro l’anno dalla domanda di divisione (1° co.);

2) la somma per estinguere le predette obbligazioni si preleva dal prezzo di vendita della cosa comune e se la divisione ha luogo in natura si procede alla vendita di una congrua frazione della cosa (2° co.);

3) il partecipante che ha pagato il debito in solido e non ha ottenuto rimborso concorre nella divisione per una maggiore quota corrispondente al suo diritto verso gli altri condividendi (3° co.).

Secondo alcuni questa norma confermerebbe una preminenza accordata dal legislatore al creditore comune rispetto ai creditori personali dei singoli partecipanti. Questa conclusione però non trova riscontri nella disciplina della materia, dove invece è prevista la espropriazione dei beni indivisi.

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