ARTICOLO 1395 C.C. Contratto con se stesso

– E’ annullabile il contratto che il rappresentante conclude con se stesso, in proprio o come rappresentante di un’altra parte,a meno che il rappresentato lo abbia autorizzato specificamente ovvero il contenuto del contratto sia determinato in modo da escludere la possibilità di conflitto d’interessi. L’impugnazione può essere proposta soltanto dal rappresentato.

La disciplina giuridica del “contratto con se stesso” non ha mai trovato in dottrina un adeguato appiglio per poter essere sviscerata nella sua determinazione: in passato, ci si appellava con una certa forza alla circostanza per la quale lo stesso testo normativo difettava di ogni riferimento a tale figura, la qual cosa dispensava i teorici del diritto dal preoccuparsi dei sia pure rilevanti problemi che tale figura comportava nella pratica.

Attualmente, con la disposizione dell’articolo 1395 c.c. tale figura ha trovato ragione di esistere sul piano della teoria normativa, e pertanto costringe i teorici del diritto a preoccuparsi della sua disciplina e ad interrogarsi sulle conseguenze pratiche che il suo esercizio comporta.

L’analisi del fenomeno deve incentrarsi su due poli: da un lato, analizzare attentamente la teoria del contratto onde verificare in quali termini tale figura possa rientrare nel novero dei comuni regolamenti contrattuali; dall’altro lato indagare l’ambito della teoria della rappresentanza, poiché il contratto con se stesso non esclude la questione relativa al “conflitto d’interessi” che può coinvolgere il rappresentante ed il rappresentato.

La dottrina continua da più parti a parlare del “contratto con se stesso” come di una figura particolare e straordinaria, che come tale deve essere valutata attentamente e non senza dimostrare qualche difficoltà in merito.

In particolare, il problema della sua determinazione dottrinale si fa oscillare tra due possibili poli, tra loro ovviamente incompatibili e che comportano conseguenze decisamente differenti:

  • da un lato, vi è chi continua a ritenere che il contratto con se stesso realizzi comunque gli effetti tipici di un regolamento contrattuale, con la sola differenza ravvisata nella circostanza per la quale l’intero apporto volitivo che sottende al contratto fa capo ad uno stesso soggetto (essendo nella normalità dei casi posto in capo ad almeno due soggetti distinti);
  • dall’altro lato, vi è chi, tenendo presente che un contratto per essere valido necessità della presenza di almeno due soggetti che possano far incontrare le loro reciproche volontà, ed atteso che nel contratto con se stesso tale duplice presenza non sussiste, ha proteso per la dichiarazione del contratto con se stesso quale negozio unilaterale.

Questione a parte è quella di coloro che hanno individuato nel contratto con se stesso un “consenso presunto” da parte del cd. rappresentato; proprio perché, sostanzialmente tale tipologia contrattuale realizza in concreto i medesimi effetti giuridici che sarebbero normalmente riconducibili ad un contratto, parte della dottrina ha reputato come esistente tale consenso alla stipulazione del contratto (essendone il consenso un elemento fondamentale della sua sussistenza),sia pure espresso in maniera tacita o presunta, poiché di fatti la volontà contrattuale è da imputarsi ad un solo soggetto.

Sembra quanto meno pretenzioso pensare che un contratto possa porsi concretamente in maniera presunta, e quindi, nella pratica,presentarsi come un negozio unilaterale che in realtà esplica gli effetti tipici del contratto: attualmente, la disciplina del negozio unilaterale è stata correttamente sviscerata nel testo di legge, e si può ricorrere alla stessa direttamente e senza addurre espedienti vari ed alquanto dubbi, peraltro.

Oltre tutto, presumere il consenso del rappresentato significa fare in modo che lo stesso intervenga nella stipulazione del contratto, seppure solo in maniera presunta o celata, realizzando una figura contrattuale che in nulla (come è ovvio immaginare) può corrispondere a quella fornitaci dall’articolo 1395 c.c.

Ipotizziamo, allora, che si voglia parlare del contratto con se stesso come di un negozio sostanzialmente unilaterale, al quale la disciplina normativa ha concesso, in via straordinaria, di esplicare i medesimi effetti giuridici che normalmente sono riconducibili al contratto. Per potersi avere una data definizione è necessario, però, che esista una certa compatibilità tra lo schema unilaterale di rapporto giuridico che si è voluto conferire strutturalmente alla figura in esame ,e la possibilità per lo stesso di esplicare le funzioni tipiche di un contratto vero e proprio: tale compatibilità deve assolutamente escludersi, verificandosi che nella maggior parte dei casi, essa non si realizza concretamente.

D’altra parte, sarebbe ipotizzabile una simile determinazione teorica qualora il rappresentato si premurasse di fornire autorizzazione a contrarre, per suo conto ed in suo nome, al rappresentante per la generalità degli affari che possono vederlo coinvolto; ma quando, come normalmente accade, il rappresentato autorizza il rappresentante per la conclusione di un affare specifico, del quale lo stesso sia già a conoscenza all’atto dell’autorizzazione, lo stesso si porrà come parte contrattuale, realizzando la stipulazione di un vero e proprio contratto tra di lui ed il rappresentante, che nulla più ha da spartire con la figura di un negozio unilaterale.

Preposta quindi la naturale incompatibilità del regolamento negoziale unilaterale con l’esplicazione degli effetti di un contratto, perché fondamentalmente non sussiste accordo alcuno in capo a tale tipologia negoziale, risulta necessario verificare in quali termini, e fino a che punto il consenso o accordo che sottostà, normalmente, ad un regolamento contrattuale sia fondamentale per inquadrarlo; poiché qualora il requisito della bilateralità, pur esistendo, non sia però così strettamente vincolato all’esistenza di un regolamento contrattuale, allora dovrà ammettersene in tali termini anche in relazione al contratto con se stesso.

In particolare, risulta necessario stabilire a quale delle strutture tipiche di un regolamento contrattuale sia possibile riferire il requisito della bilateralità: se al procedimento di formazione del contratto (devono aversi due parti contrattuali per la sua stipulazione); ovvero alla fattispecie stessa (il fatto astratto che il contratto concretamente realizza sul piano materiale deve coinvolgere due soggetti distinti di diritto); ovvero ancora al regolamento contrattuale (il contenuto del contratto, in qualità di prestazione posto alla base dello stesso, deve essere richiesta ad entrambi le parti e deve soddisfare entrambi gli assetti di interessi).

Si parta dall’analisi della prima questione, quella relativa all’individuazione della bilateralità all’interno del procedimento di formazione del contratto.

Parlare di “bilateralità”, in questo caso, significa porre l’accento sulla necessità che, nel momento in cui un contratto viene a realizzarsi, sussistano almeno due parti contrattuali delle quali l’una si premuri di avanzare la proposta di stipulazione del contratto, e l’altra si premuri di accettarla: come si vede esiste bilateralità, una parte si interessa di proporre, l’altra parte si interessa di accettare.

Eppure, esistono casi nei quali la formazione di un contratto non avviene mediante lo schema classico della “proposta – accettazione” (si pensi, come esempio più che palese, proprio al caso del contratto unilaterale di cui all’articolo 1333 c.c.),e non per questo deve considerarsi invalida una contrattazione ottenuta in tal modo. Alla luce di ciò, sembra ammissibile che il contratto con se stesso, pur sussistendo di una sola esplicazione di volontà nella sua formazione (o comunque del binomio “proposta – accettazione” in capo ad un solo soggetto, il rappresentante) possa costituirsi validamente come un qualsiasi regolamento contrattuale, non essendo necessario che la bilateralità si configuri in questo specifico settore.

Dal secondo punto di vista, deve considerarsi il requisito della “bilateralità” come riferito alla fattispecie contrattuale.

In tali termini, non si può pensare che un fatto realizzatosi concretamente sul piano empirico, e che può essere ricondotto all’interno di un regolamento contrattuale astratto, del quale possegga tutti i requisiti, non venga influenzato altresì dalle modalità di formazione di quello stesso regolamento contrattuale astratto: in altri termini, un contratto che si fonda sulla bilateralità della stipulazione, può riferirsi solo ad un fatto empirico, realizzatosi nella realtà concreta, che allo stesso modo ha visto coinvolti due soggetti di diritto distinti, che hanno concretamente agito tra loro sulla base del rapporto “proposta – accettazione”. E se si è postulata, come pure effettivamente si è fatto, la nullità del binomio suddetto, non si può non affermare la contestuale nullità del requisito della bilateralità all’interno della fattispecie.

Non si può poi escludere il caso, peraltro alquanto frequente, in cui coloro che sono autori del regolamento contrattuale (e dunque della fattispecie) non sono poi i medesimi soggetti destinatari degli effetti che questo produce: si pensi al caso proprio della rappresentanza diretta, laddove la conclusione della fattispecie contrattuale è fissata in capo al rappresentante, ma l’esplicazione degli effetti giuridici del contratto si realizza nella sfera patrimoniale del rappresentato. In altri termini, la bilateralità che dovrebbe caratterizzare la fattispecie non coincide con quella espressa nel regolamento contrattuale.

Ed ancora più evidente risulta tale differenza, laddove si intenda parlare dei soggetti coinvolti come di “parti” (nozione,quella di parte, ancora sostanzialmente dubbia nella sua disciplina): in questo specifico caso, è opportuno distinguere tra “parte della fattispecie” (o “formale”) e “parte del regolamento contrattuale” (o “sostanziale”).

E’ fondamentale chiarire bene in quali termini si desidera parlare di parte in senso formale e di parte in senso sostanziale,ed in quale sia possibile ravvisare la dicotomia tra i due concetti:

  1. la parte in senso formale è solo quella che si preoccupa di stipulare il contratto, ossia di partecipare alla sua concreta formazione; la stessa non assume alcun tipo di interesse specifico alla stipulazione, e non si preoccupa di soddisfare alcun assetto di interessi che possa coinvolgerla (poiché di fatti non ne esistono). Il rappresentante è pertanto una tipica parte formale: egli si occupa della stipulazione del contratto, esplica la volontà a ciò fare in nome e per conto del rappresentato, ma giammai presenta interessi specifici che intenda realizzare (ecco perché collide con la definizione di parte formale l’intendere il soggetto che partecipa alla stipulazione del contratto in qualità di “centro d’interessi”); è oltretutto importante conferire al rappresentante (solo nella rappresentanza diretta, peraltro) la qualifica altresì di “parte” poiché lo stesso, in realtà non rimane affatto estraneo al regolamento contrattuale: il rappresentante si rende manifestante una volontà, anche se questa gli viene trasferita dal rappresentato che a ciò lo autorizza; ma il rappresentante non è mero portavoce, questi partecipa con proprie manifestazioni volitive alla realizzazione del contratto;
  2. la parte in senso sostanziale è solo quella che si rende destinataria degli effetti del contratto, pur non escludendo la sua partecipazione al regolamento contrattuale: non può pensarsi di denominare quale “parte” un soggetto che non partecipa in alcun modo alla formazione del contratto, eppure ne riceve, quale mero destinatario, tutti gli effetti. Tipica parte sostanziale è il rappresentato, il quale riceve come destinatario gli effetti del contratto, ma partecipa anche allo stesso, manifestando la sua volontà, seppure non direttamente ma tramite un rappresentante. Il rappresentato, inoltre (sempre nella sola rappresentanza diretta),consente al rappresentante di spendere il suo nome nel regolamento contrattuale, e ciò determina in suo capo la facoltà assoluta di essere considerato come “parte” del contratto, partecipante effettivamente alla sua stipulazione, anche se non in prima persona come dovrebbe normalmente essere.

Deve allora escludersi la sussistenza del requisito della bilateralità nella fattispecie, come la si vuole intendere nel senso classico, poiché anche laddove sussistesse la formula contrattuale “proposta – accettazione”, potrebbe verificarsi il caso in cui il soggetto proponente, ovvero accettante non sia poi lo stesso che riceve gli effetti della sua proposta, ovvero della sua accettazione.

Da ultimo, allora, va valutato il caso della “bilateralità” come riferita al regolamento d’interessi.

Posto che non è ammissibile parlare di bilateralità in merito al numero delle parti che partecipano alla stipulazione del contratto, ovvero al numero delle parti cui tale stipulazione contrattuale può essere riferita, si rende necessario inquadrare il requisito di bilateralità non su di un piano concreto e numerico, bensì su di un piano meramente astratto e di valore.

Ciò che l’ordinamento qualifica come “bilateralità” è la circostanza per la quale il contratto stipulato ponga quale suo specifico oggetto, da realizzare mediante l’esplicazione delle prestazioni che vi sono riferite, la necessità di soddisfare congiuntamente un duplice assetto di interessi, normalmente divergenti (in quanto facenti capo a due soggetti di diritto distinti),ma che trovano il modo di accordarsi nel regolamento contrattuale.

Ed allora non sarà bilaterale il contratto che coinvolge due parti nella sua stipulazione, ovvero che produce i suoi effetti in due sfere patrimoniali separate; è bilaterale il contratto che possiede quale contenuto la volontà di soddisfare due regolamenti d’interessi, normalmente divergenti, ma che all’interno del contratto possono convivere pacificamente, ed essere soddisfatti entrambi.

In questi termini, deve concludersi che la bilateralità del contratto non può ravvisarsi sul piano materiale (e dunque non si può riferire al concreto modo di stipulare il contratto, ovvero al concreto numero delle parti che si occupano della sua stipulazione); il concetto di bilateralità esiste solo su un piano teorico ed astratto, essendo riferito ad un ambito (quello degli interessi contrattuali delle parti) che non può essere concretamente afferrato.

Da quanto si è detto, ed in conclusione della disamina istante, si evince che il contratto non fonda la sua assoluta rilevanza sul consenso e sulla circostanza per cui, la nascita di un contratto, deve necessariamente essere ricondotta alla realizzazione di un accordo.

Il contratto è bilaterale perché il suo regolamento d’interessi può essere soddisfacente per due parti distinte, e non certamente perché esiste alla sua base un accordo che ne giustifica la stipulazione. Pertanto, l’aforisma latino “solus consensus obligat” deve intendersi nel senso in cui un contratto può ritenersi operante tra le parti anche solo se lo stesso sia stato il frutto del loro consenso a stipularlo (dunque a prescindere dall’effettiva consegna dei beni che ne sono oggetto, da una parte all’altra),e non, come da più parti tradizionalmente si è fatto, ritenere che l’aforisma suddetto indicasse un obbligo a che la contrattazione avvenisse solo mediante il consenso (esistono infatti contratti, quali quelli reali, per il cui perfezionamento pratico non è sufficiente il consenso delle parti, ma è necessaria la consegna dei beni che ne sono oggetto: ebbene, tale esiste nella pratica senza realizzare alcun tipo di problema).