Il sistema degli enti pubblici economici, negli anni ’80, è entrato in collisione con il diritto europeo; non a caso, i fondi di dotazione con i quali il Parlamento italiano aveva costantemente alimentato gli enti di gestione delle partecipazioni statali sono incappati nel divieto di aiuti di Stato, sancito dall’ art. 92 (oggi 87) del Trattato CE, ossia nel divieto per gli Stati membri di attribuire risorse che, favorendo talune imprese, potessero falsare la concorrenza. Basti osservare, invero, che i soldi che il contribuente italiano versava, ad es., a favore dell’ IRI o dell’ ENI (sottoforma di capitale di rischio) conferivano alle società partecipate un vantaggio competitivo rispetto alle altre imprese che operavano negli stessi settori, ma che non fruivano di finanziamento pubblico.

Per risolvere questo problema, pertanto, è stato necessario procedere alla liberalizzazione di determinati settori, allo scopo di concedere alle imprese non finanziate dallo Stato di accedere ai relativi mercati, con un consequenziale ridimensionamento dell’ ente pubblico monopolista. Un’ operazione del genere è stata realizzata in Italia, in primis, attraverso la trasformazione degli enti pubblici economici in s.p.a. (cd. privatizzazione formale) e, successivamente, con la vendita, da parte dell’ azionista pubblico (lo Stato e, in particolare, il Ministero del Tesoro) del capitale della società interessata ai privati (cd. privatizzazione sostanziale).

Si è cominciato con il settore del credito e la trasformazione degli istituti di credito di diritto pubblico in s.p.a. (1990) e si è continuato con gli enti di gestione delle partecipazioni statali (1992), con l’ ENEL, l’ IMI e l’ INA (1993-1995), con le Ferrovie (1995) e con l’ Ente Italiano Tabacchi (1998).

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