La nozione di provvedimento amministrativo
Il procedimento confluisce verso un atto conclusivo che la L. 241/90 qualifica come provvedimento amministrativo (o provvedimento finale); è bene precisare, però, che la nozione di provvedimento amministrativo non va confusa con quella di atto amministrativo: mentre, infatti, gli atti amministrativi sono quelli che precedono o seguono il provvedimento (in funzione preparatoria o servente), il provvedimento coincide, invece, con la decisione (cioè, con la scelta dell’ amministrazione competente).
In passato, il provvedimento amministrativo è stato definito come la dichiarazione di volontà, di conoscenza, di giudizio o di desiderio espressa da un’ autorità amministrativa; questa nozione, però, da un lato, risultava troppo ampia (perché finiva per ricomprendere anche atti amministrativi che non erano provvedimenti) e, dall’ altro, enfatizzava un profilo (quello psicologico) che veniva in scarso rilievo sia ai fini del regime giuridico, sia ai fini della validità-invalidità del provvedimento.
L’ aspetto importante da prendere in considerazione, invece, è che quel provvedimento proviene da un’ autorità amministrativa, anzi costituisce esercizio di una potestà amministrativa: in tal senso, appare appropriata la definizione proposta dal Giannini, secondo il quale il provvedimento amministrativo è l’ atto con cui l’ autorità amministrativa dispone in un caso concreto, in ordine all’ interesse pubblico che è affidato alla sua tutela, esercitando una potestà amministrativa e incidendo su situazioni giuridiche di privati.
Gli elementi del provvedimento
Analizziamo i singoli elementi della definizione:
• il provvedimento amministrativo proviene da un’ autorità amministrativa; ciò significa che il provvedimento viene qualificato, innanzitutto, dal soggetto [sicché un atto di identico contenuto, ma adottato da un privato o da un soggetto pubblico che non fa parte dell’ amministrazione (ad es., una commissione parlamentare) non è un provvedimento amministrativo (in questa prospettiva, provvedimento amministrativo è, ad es., l’ ordinanza con la quale il sindaco vieta la circolazione delle auto in una strada comunale durante certe ore della giornata; non lo è, invece, la disposizione con la quale il proprietario di una riserva di caccia limita la circolazione degli autoveicoli)];
• perché un atto sia qualificato come provvedimento amministrativo non basta che esso provenga da un’ autorità amministrativa, ma occorre anche che sia emanato nell’ esercizio di una potestà amministrativa [nell’ ambito, cioè, del diritto pubblico: in quest’ ottica, non sono, ad es., provvedimenti amministrativi i contratti delle P.A., ovvero gli atti precontrattuali (offerta, accettazione, controproposta) ovvero ancora gli atti di esecuzione di un contratto; è, invece, un provvedimento amministrativo la deliberazione a contrattare, ossia l’ atto con il quale l’ ente pubblico individua il fine del contratto, ne fissa il contenuto fondamentale (oggetto, forma e clausole essenziali) e stabilisce le modalità di scelta del contraente];
• il provvedimento si concreta in un disporre (o provvedere) in un caso concreto in ordine ad un interesse pubblico.
Più precisamente, l’ autorità amministrativa può provvedere con una disposizione (ad es., quando ordina la demolizione di una costruzione abusiva), con una decisione (ad es., quando assegna ad una delle ditte richiedenti, escludendo le altre, una concessione di autolinea), con una dichiarazione (ad es., quando dichiara un immobile di interesse paesaggistico) ovvero con un giudizio (si pensi, ad es., alla commissione di laurea che assegna il voto);
• il provvedere dell’ atto amministrativo si contrappone al prevedere che è proprio della legge: la legge, ad es., prevede che, per costruire un edificio, il proprietario dell’ area deve essere autorizzato dal sindaco; il sindaco del comune x, in presenza di una domanda del proprietario y, provvede ad autorizzarlo (o a negargli l’ autorizzazione). Questa contrapposizione mette in luce un aspetto fondamentale del provvedimento amministrativo, vale a dire: il suo legame con un interesse pubblico, che la legge individua in astratto, ma che l’ autorità amministrativa tutela in concreto (nell’ esempio precedente va notato, infatti, che il sindaco non stabilisce una regola, ma la applica nel caso specifico);
• un altro aspetto della definizione di provvedimento amministrativo riguarda, poi, la sua efficacia verso l’ esterno: questo tratto vale a distinguere i provvedimenti amministrativi dagli atti amministrativi che non sono provvedimenti (ad es., la proposta del sindaco di localizzare un edificio scolastico in una certa area spiega effetti nei confronti del proprietario solo quando la stessa viene fatta propria dalla giunta o dal consiglio comunale, mediante una delibera che ha natura di provvedimento); quindi, dal provvedimento si distinguono (perché privi di efficacia esterna) gli atti interni e quelli endoprocedimentali, che esplicano i loro effetti all’ interno del procedimento;
• un’ ulteriore caratteristica del provvedimento amministrativo è, infine, la discrezionalità; in particolare, il problema della discrezionalità amministrativa (ossia della scelta che l’ amministrazione è chiamata ad effettuare) va inquadrato nel rapporto che sussiste tra provvedimento e decisione: ai sensi, infatti, dell’ art. 3 L. 241/90 la decisione è legata alle risultanze dell’ istruttoria e costituisce, di solito, il prodotto dell’ esame contestuale di vari interessi pubblici. Si tratta, pertanto, di una scelta che non è del tutto libera: in primo luogo, perché essa è compiuta dall’ autorità a tutela di un interesse che non è proprio; in secondo luogo, perché è legata alle risultanze dell’ istruttoria [infatti, l’autorità amministrativa provvede sulla base di fatti che vanno accertati d’ ufficio, cioè sulla base di un’ istruttoria, le cui risultanze confluiscono nella motivazione del provvedimento (se, ad es., dall’ istruttoria emerge che la costruzione è stata realizzata in totale difformità della concessione edilizia, il dirigente comunale non può fare a meno di ordinare la demolizione); in terzo luogo, la scelta non è libera perché essa è spesso espressione di una valutazione comparativa di interessi (pubblici e privati): si pensi, ad es., ad un piano regolatore urbanistico, il quale andrà ad incidere non solo sull’ interesse dei proprietari delle aree ricomprese nel territorio comunale, ma anche sugli interessi di privati che non sono proprietari, nonché sugli interessi pubblici.
La motivazione
L’ art. 3 L. 241/90 stabilisce che ogni provvedimento amministrativo deve essere motivato; con la motivazione, in particolare, l’ autorità amministrativa (ad es., il sindaco), in relazione alle risultanze dell’ istruttoria, deve indicare i presupposti di fatto (ad es., che l’ edificio di proprietà di Tizio è pericolante) e le ragioni giuridiche che giustificano la decisione (nel nostro esempio, la norma che attribuisce al sindaco il potere di ordinare a Tizio di effettuare lavori di consolidamento).
Dalla formulazione dell’ art. 3 su citato si evince che la motivazione è obbligatoria; ma, a questo punto ci si chiede il perché. Per rispondere a tale quesito, è necessario precisare, innanzitutto, che il provvedimento amministrativo, al pari della legge del Parlamento o della sentenza del giudice, è un’ espressione del pubblico potere (e, in quanto tale, idoneo ad incidere unilateralmente nella sfera giuridica del cittadino). Tuttavia, mentre non v’è motivo di motivare la legge, perché essa è espressione della volontà popolare (è votata, cioè, da un collegio, i cui componenti sono eletti dal popolo), i giudici e la P.A. non sono eletti dal popolo; è bene precisare, però, che solo per i provvedimenti giurisdizionali è stato costituzionalizzato, in modo puntuale, l’ obbligo di motivazione (art. 111, co. 6), mentre per quelli amministrativi, almeno fino al 1990, un simile obbligo generalizzato non era previsto neppure nella legge ordinaria.
Secondo una teoria formulata negli ultimi anni, però, l’ obbligo di motivare i provvedimenti amministrativi troverebbe, in realtà, il proprio fondamento nel principio democratico, dal momento che quest’ ultimo implica sia trasparenza nelle decisioni dell’ autorità amministrativa, che esplicitazione delle ragioni (in funzione del controllo popolare); ne consegue, pertanto, che ogni provvedimento amministrativo deve essere motivato, allo scopo di consentire al cittadino di avere le informazioni necessarie per esercitare quel controllo.
Più risalente nel tempo è, invece, la teoria che riconduce l’ obbligo di motivazione ai princìpi costituzionali di imparzialità dell’ attività amministrativa (art. 97) e di giustiziabilità degli atti amministrativi, contro i quali è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi (art. 113); in altri termini, secondo tale teoria si ritiene che se l’ amministrazione deve agire in modo imparziale, il privato ha il diritto di conoscere le ragioni per le quali la decisione viene presa. In linea con questa impostazione, l’ atto privo di motivazione è illegittimo, proprio perché impedisce al cittadino di conoscere le ragioni poste a fondamento del provvedimento.
Le suggestioni della dottrina del contratto e la questione del silenzio
Parte della dottrina, nella costruzione dogmatica del provvedimento amministrativo, si è ispirata alla teoria del negozio giuridico e del contratto: da qui, il frequente richiamo alle categorie civilistiche della volontà, della forma e della causa. Analizziamo tali elementi.
La volontà non può mancare nel provvedimento amministrativo, perché esso deve essere necessariamente voluto (anche qualora il suo contenuto si risolva in un giudizio); rispetto al contratto, però, diversa è la rilevanza della volontà: mentre, infatti, l’ assenza o il vizio della volontà rende nullo o annullabile il contratto, l’ invalidità del provvedimento non è mai diretta conseguenza di un vizio della volontà (ad es., l’ ordine di demolizione di un immobile che il dirigente comunale ritiene abusivo, mentre è stato autorizzato con regolare permesso di costruire, è annullabile non perché l’ atto è affetto da un errore-vizio, ma perché difetta il presupposto richiesto dalla legge, vale a dire il carattere abusivo della costruzione).
Più complesso, invece, è il discorso relativo alla forma: in passato si era soliti ripetere che, in assenza di specifiche prescrizioni, la forma del provvedimento era libera; oggi, invece, l’ art. 3 L. 241/90, prescrivendo la motivazione per ciascun provvedimento amministrativo, presuppone la necessità della forma scritta, perché questa è la sola che consente all’ amministrazione di indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione, in relazione alle risultanze dell’ istruttoria.
Identica soluzione è indicata dall’ art. 2, co. 1, L. 241/90, in virtù del quale, una volta avviato il procedimento, l’ amministrazione ha il dovere di concluderlo mediante l’ adozione di un provvedimento espresso (cioè, scritto).
In passato, però, si è a lungo discusso se il provvedimento amministrativo potesse assumere forma tacita (se potesse esserci, cioè, un provvedimento tacito); se, tuttavia, la questione poteva apparire giustificabile in passato, oggi, invece, il quadro normativo contiene una risposta ben precisa (si legga l’ art. 2 su citato, che parla di provvedimento espresso e, quindi, scritto).
È bene precisare, però, che l’ art. 20 L. 241/90 (nell’ ottica della semplificazione amministrativa) stabilisce che, nei procedimenti ad istanza di parte, il silenzio dell’ amministrazione, protratto oltre il termine per la conclusione del procedimento, equivale ad accoglimento della domanda (si parla in questi casi di cd. silenzio-assenso); in altri termini, ciò significa che una volta scaduto il termine per la conclusione del procedimento, senza che l’ amministrazione abbia provveduto sulla domanda del privato, questi potrà avviare l’ attività, il cui svolgimento è subordinato al rilascio di un determinato provvedimento amministrativo (il privato, cioè, potrà avviare quell’ attività come se, una volta scaduto il termine, la stessa fosse libera); da quanto abbiamo detto si intuisce, pertanto, che la legge non autorizza affatto una sorta di provvedimento silenzioso; solo che, per ragioni di tutela del privato, l’ inerzia viene equiparata ad un atto di assenso.
È bene precisare, comunque, che l’ amministrazione conserva sempre il potere di adottare i provvedimenti di annullamento e di revoca (può, cioè, annullare o revocare il silenzio-assenso che si era formato in precedenza); ma ciò soltanto nei casi in cui ricorrano i presupposti indicati dalla legge, quali: l’ esistenza di uno specifico interesse pubblico alla cessazione dell’ attività ovvero una delle sopravvenienze che autorizzano la revoca.
Al di fuori dei casi di silenzio-assenso, la legge equipara, invece, l’ inerzia dell’ amministrazione, mantenuta oltre un certo termine, a rifiuto di provvedimento (cd. silenzio-rifiuto).
Rimane da analizzare, infine, la questione della causa del provvedimento; al riguardo, è necessario premettere che nel periodo successivo all’ entrata in vigore del codice civile, la causa (del provvedimento amministrativo) veniva identificata con la funzione economico-sociale tipica del contratto (in questa prospettiva, ad es., la causa dell’ autorizzazione amministrativa veniva a coincidere con la rimozione di un limite all’ esercizio di un diritto e la causa della espropriazione con il trasferimento coattivo dell’ immobile dietro un indennizzo); una tale concezione della causa comportava, però, problemi tecnici di non facile soluzione: come quello della causa illecita nei contratti tipici.
Per risolvere il problema, si è pensato allora di spostare il concetto di causa dall’ atto al potere amministrativo, qualificato in ragione del suo contenuto (sanitario, ambientale, urbanistico, etc.); pertanto, in virtù di tale spostamento, la causa si identifica, oggi, con l’ interesse pubblico specifico (sanitario, ambientale, urbanistico, etc.) che, a mezzo di quel potere, viene tutelato.