La parte nel dare impulso al processo esercita senza dubbio un potere cosiddetto Potere d’azione. Alcuni ritengono che si tratti di un potere di fatto essendo il fenomeno giuridico interamente disciplinato dal diritto sostanziale. Secondo questa teoria che si avvicina alla tradizione romana l’azione non è altro che una proiezione del diritto sostanziale. Altri invece ritengono che il fenomeno giuridico è rilevante e apprezzabile solo se viene dedotto nel processo e che quindi che il diritto soggettivo si identifichi con l’azione e in tanto esiste in quanto esiste l’azione.

Al centro di queste teorie che sono entrambe moniste dato che per una esiste solo il diritto sostanziale e per l’altra esiste solo il diritto processuale vi sono le teorie intermedie le quali cercano di costruire il diritto d’azione come il necessario elemento di raccordo tra il fenomeno giuridico sostanziale e il fenomeno processuale. Entrambe le teorie moniste risentono di una determinata ideologia.

Quella che risolve l’azione in una manifestazione del diritto sostanziale è ispirata ad un’ideologia liberale individualista che vede nel processo un mero strumento per la protezione delle situazioni giuridiche sostanziali di cui le parti possono disporre a loro piacimento. Quella che risolve il diritto sostanziale nell’azione si ispira invece alle ideologie e ai regimi autoritari che vedono nel processo uno strumento che può essere utilizzato anche contro gli obiettivi e la volontà delle parti.

Le teorie intermedie invece ritenendo che il diritto sostanziale e il diritto processuale sono due fenomeni giuridici distinti e di pari livello che devono essere raccordati tra loro sono più congeniali all’ideologia del nostro legislatore il quale all’art 24 cost. non solo riconosce l’autonomia del diritto d’azione ma esprime anche l’esigenza della normale correlazione tra diritto d’azione e posizione giuridica sostanziale riconosciuta dall’ordinamento.

Le teorie sull’azione svolgono una funzione di garanzia evitando che l’ordinamento sottragga ai cittadini quanto gli è assicurato sul piano sostanziale attraverso un’inadeguata protezione processuale. Chiarito che il potere d’azione è un potere autonomo ci si è chiesti quali siano le sue caratteristiche essenziali. Al riguardo vi sono in dottrina tre tendenze di fondo:

1) secondo una prima teoria l’azione è un potere giuridico riconosciuto alla parte in quanto soggetto all’ordinamento è cioè un potere di carattere pubblicistico ad ottenere un provvedimento giudiziale qualsiasi anche meramente processuale (cosiddetto Potere d’azione in senso astratto)

2) secondo un’altra teoria l’azione è un potere giuridico della parte ad ottenere un provvedimento giudiziale di merito qualsiasi, sia favorevole che sfavorevole e quindi un potere che in tanto può essere esercitato dal soggetto in quanto questi lo raccordi ad una posizione giuridica sostanziale che assumi essere propria e meritevole di tutela

3) secondo una terza teoria l’azione è un potere giuridico della parte ad ottenere un provvedimento giudiziale di merito favorevole e quindi un potere che in tanto esiste, in quanto esista nella parte e non sia meramente affermata, una situazione giuridica sostanziale meritevole di tutela (cosiddetta Azione in senso sostanziale)

Si è detto che presupposto dell’azione in senso astratto è il mero interesse processuale ad agire, che presupposti dell’azione intesa come aspirazione ad un qualsiasi provvedimento di merito sono l’interesse ad agire e la legittimazione, che presupposti dell’azione in senso sostanziale sono l’interesse ad agire, la legittimazione e l’esistenza del diritto. La dottrina nel cercare di stabilire quali delle tre nozioni debba essere accolta dimentica di considerare sia che non esiste una nozione valida sub specie aeternitatis essendo essa il risultato di una determinata disciplina positiva sia che non è dimostrato che le varie nozioni sono tra loro incompatibili. Da quanto detto ne deriva che:

1) il problema giuridico dell’azione non è un problema giuridico formale ma un problema di diritto positivo

2) che nulla esclude che nel nostro ordinamento alcune norme facciano riferimento ad una nozione d’azione mentre altre si riferiscano ad un’altra nozione

Quanto detto trova conferma nell’analisi delle varie norme. Si riferiscono infatti all’azione in senso astratto tutte le norme che prendono in considerazione l’attività processuale del soggetto per il solo fatto di essere svolta come ad es. quella che prevede che il soggetto che propone la domanda anticipi le spese giudiziali, quella che dispone che le parti tengano comunque un comportamento probo e leale, quella che prevede che attore e convenuto essendo ormai parti del processo non possono intervenirvi in altra veste ecc. ecc.

Si riferiscono invece all’azione come diritto ad un qualsiasi provvedimento di merito tutte quelle norme che vedono nel processo un servizio organizzato per rendere giustizia come ad es. quella che prevede che la pronuncia d’incompetenza non comporta la chiusura del processo ma la rimessione degli atti al giudice competente, quella che prevede la possibilità di riassunzione della causa entro sei mesi dalla sentenza della cassazione sulla giurisdizione, quella che impedisce al giudice di dichiarare d’ufficio l’estinzione in caso di inattività delle parti ecc. ecc.

Si riferiscono infine all’azione in senso sostanziale tutte quelle norme che cercano di realizzare il principio messo in luce da Chiovenda secondo cui la durata del processo non deve danneggiare in alcun modo l’attore che ha ragione come ad es quella che obbliga il possessore in buona fede a restituire i frutti a partire dalla data di proposizione della domanda e quelle che disciplinano la trascrizione delle domande giudiziali ed in genere i cosiddetti Effetti sostanziali della domanda giudiziale.

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