L’art. 42 co. 1, disponendo che nessuno può essere punito per un’azione od omissione preveduta dalla legge come reato se non l’ha commessa con coscienza e volontà, sottolinea il principio generale secondo cui la condotta, prima che dolosa o colposa, deve essere umana, essendo tale solo la condotta dell’uomo, che si differenzia dagli accadimenti naturali e dalle inerzie meramente meccaniche.

Se la responsabilità penale presuppone la coscienza e la volontà della condotta, tuttavia, è lecito chiedersi che cosa si intenda esattamente con tali termini. Interpretandoli nel loro significato psicologico, la dottrina inizialmente ha richiesto un reale impulso cosciente della volontà, diretto alla produzione del movimento muscolare (azione) o a conservare lo stato di inerzia (omissione). Tale nozione, tuttavia, si è rivelata troppo ristretta: il coefficiente psicologico, infatti, mentre è necessariamente presente nei reati dolosi, non è riscontrabile in molte condotte che rientrano tra le ipotesi di reato colposo. Non si possono considerare autenticamente volontari, ad esempio, gli atti automatici (es. starnuto), le azioni dovute a distrazione (es. automobilista distratto che causa un incidente) o le omissioni dovute a dimenticanza (es. chirurgo che non conclude l’operazione come dovrebbe), tuttavia, nessuno dubita della colpevolezza, ad esempio, della madre che, distrattamente, si addormenta sul bambino, soffocandolo.

Per aggirare l’ostacolo si è dunque risaliti alla coscienza e alla volontà dell’atto antecedente, ma anche in questo caso il tentativo è stato inadeguato. Vi sono infatti dei casi in cui la volontà dell’atto precedente è del tutto irrilevante (es. fumatore che accende la sigaretta che causa un incendio), oppure casi in cui essa non esiste proprio (es. guardiano ferroviario che si addormenta).

Per non escludere dall’art. 42 co. 1 tutta l’ampia sfera di comportamenti non sorretti da una coscienza e volontà reali, la dottrina è stata costretta a interpretare estensivamente tali termini (appartenenza della condotta al soggetto), andando quindi a comprendere non solo la coscienza e la volontà (1) reali, ma anche la coscienza e la volontà (2) potenziali, dovendo considerarsi attribuibile alla volontà del soggetto anche le condotte che, pur non traendo origine da un impulso cosciente, potevano essere impedite con uno sforzo del volere.

Con l’incisiva espressione di suitas della condotta si designano entrambe le suddette ipotesi di appartenenza della condotta al soggetto. In questo modo, tuttavia, l’elemento della coscienza e volontà della condotta perde il proprio carattere unitario, scindendosi in due ipotesi irriducibili sotto il profilo naturalistico: mentre l’effettiva estrinsecazione di impulsi coscienti (azione) costituisce una realtà naturalistico-psicologica, la potenziale estrinsecazione di impulsi inibitori è un dato ipotetico-normativo.

Questi due modi di essere della suitas, in particolare, rispondono ad una differenza tra reato colposo e reato doloso, già riconoscibile al livello della condotta. Essi, quindi, devono necessariamente considerarsi requisiti, rispettivamente, del dolo e della colpa.

Dato che coscienza e volontà, reali o potenziali, hanno come oggetto la condotta tipica, attiva o omissiva, è lecito chiedersi quali siano, rispettivamente, gli atti e le inerzie che vadano a costituire tale condotta:

  • nei reati commissivi, tale è l’ultimo degli atti necessari a mettere in moto il processo causale, senza che più occorra l’ulteriore intervento del soggetto.
  • nei reati omissivi impropri, tale è il mancato compimento dell’ultima azione impeditiva dell’evento.
  • nei reati omissivi propri, tale è l’inerzia concomitante alla scadenza del termine per adempiere il dovere di facere, oppure all’azione che rende impossibile l’adempimento di tale dovere.

L’attribuibilità psichica della condotta al soggetto, insieme con la susseguente responsabilità (colpevole o oggettiva), è esclusa solamente nelle situazioni:

  • di incoscienza indipendente dalla volontà, ossia quando l’incoscienza non risale al volere dell’agente, il quale non solo non l’ha procurata, ma non poteva neanche prevederla.
  • di forza maggiore, ossia quando forze esterne della natura determinano, in modo irresistibile e inevitabile, il soggetto a tenere un comportamento attivo od omissivo.
  • di costringimento fisico, ossia quando, a differenza del caso precedente, le forze esterne sono umane.
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