Il processo penale si basa su un insieme di norme (essenzialmente codice di rito e ordinamento giudiziario, ma anche leggi speciali) con cui lo Stato autolimita il proprio potere di imperio dettando a se stesso le regole che sarà tenuto a rispettare al momento di perseguire i cittadini sospettati di aver commesso uno o più reati. Il che si risolve nel rispetto del principio di uguaglianza.

Le norme processuali si concretano di regola nella prescrizione tecnica di condotte ovvero nell’imposizione di canoni di comportamento, da porre in un certo modo, entro il limite stabilito, e nel rispetto della sfera di azione degli altri soggetti, se si vogliono conseguire le finalità assegnate.

Esse definiscono:

  1. Le regole con cui perseguire i cittadini che hanno commesso dei reati
  2. Le modalità di instaurazione e svolgimento delle contese
  3. I comportamenti che devono essere osservati: sia dai soggetti che partecipano al processo in quanto portatori di specifici interessi (la parte civile, l’imputato, il pubblico ministero) sia dai soggetti investiti del potere di risolvere la contesa (i giudici di merito, i giudici di legittimità).

Per questo motivo le norme del codice di procedura penale vengono spetto definitive norme di organizzazione e funzionamento.

Nel processo penale, i soggetti operanti possono compiere soltanto quelle attività alle quali risultano specificamente autorizzati dalla legge, nel rispetto delle parati e di tempo e di modo prestabilite; cioè, se certi risultati utili possono essere conseguiti soltanto rispettando le regole prefissate ne deriva che l’attività delle parti e del giudice, per essere giuridicamente rilevante deve svolgersi sempre e costantemente nel rispetto della legge. È questo il nucleo del c.d. «giusto processo» introdotto con forma costituzionale tra il finire dell’anno 1999 e i primi giorni del 2000.

Il processo penale ha subito nel tempo un profondo cambiamento che può essere riassunto nelle seguenti fasi. Dal 1930 a 1988 il diritto processuale penale era regolamentato dal codice Rocco. Si tratta di un testo approvato in epoca fascista e caratterizzato da una forte impronta autoritaria. In questo lungo periodo si è applicato un sistema inquisitorio in cui il giudice aveva come scopo primario la ricerca della c.d. verità reale (una sorta di verità assoluta).

Nel 1987 il Parlamento ha adottato la legge delega 81/1987, con cui ha incaricato il governo di redigere un nuovo codice di procedura penale. Nel 1988 il governo ha emanato il Codice Vassalli (così chiamato in onore del ministro della Giustizia Giuliano Vassalli che dette un apporto fondamentale a questo nuovo testo normativo). L’attuale codice ha eliminato qualunque riferimento alla verità reale.

Non va trascurato che in forza dell’art. 358, co. 1, «il pubblico ministero svolge altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini», così restando delineati i contorni di una sorta di parte imparziale che ha il dovere di indagare non soltanto sui fatti a sostegno dell’esercizio dell’azione penale, ma su tutto ciò che attiene alla vicenda storica, quindi anche sulle circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini.

Quanto ai poteri probatori del giudice, va subito detto che l’intervento d’ufficio del giudice deve essere esplicato unicamente in funzione di garanzia del rispetto delle regole e di riequilibrio di situazioni anomale. Ciò non vuol dire che oggi il giudice non debba ricercare la verità.

Essa rimane, infatti, l’obiettivo fondamentale di ogni magistrato il quale deve tuttavia garantire, mentre effettua questa ricerca, il rispetto dei principi fondamentali in tema di prova, giurisdizione competenza ecc. la minore tensione verso un risultato ad ogni costo e la ripulsa di ogni ansia giudiziale per la verità reale lasciano il posto, in funzione di recupero, a sempre più sofisticati strumenti di controllo in fase di impugnazione e post rem iudicatam.

Per l’effetto, il giudice non è più e non può essere legibus solutus. l esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti» e «il giudice non può utilizzare ai fini della deliberazione prove diverse da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento»: tutto ciò si riflette nel valore della motivazione della sentenza, come espressione del concreto operare delle regole del giusto processo, con particolare riferimento all’incidenza del momento probatorio nella formazione del convincimento del giudice.

L’essenzialità del discorso giustificativo dell’organo decidente, postulato dall’art. 111 Cost., si disvela in tutta la sua importanza proprio nei confronti delle argomentazioni della difesa, in quanto indicativo della correttezza delle modalità del procedere e dell’uguale apertura verso le ragioni di ogni parte processuale. In ipotesi di motivazione carente, potrebbe intervenire in funzione rettificante il giudice d’appello.

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