Ammesso che qualsiasi diritto possa essere oggetto di una domanda di mero accertamento, per poter legittimamente pretendere dal giudice una sentenza non basta l’affermazione della titolarità dal momento che il processo, essendo funzionale alla tutela dei diritti, presuppone una contestazione. Il filtro viene quindi ad essere costituito dalla necessità che sussista un interesse ad agire (art. 100), in essenza del quale il giudice deve respingere la domanda con sentenza definitiva di rito.

Tale riferimento all’interesse ad agire, tuttavia, non essendo supportato da alcun principio direttivo, rischia di tradursi in un’eccessiva apertura all’esercizio di un potere discrezionale da parte del giudice. Sembra quindi opportuno che il giudice, nel corso della prima udienza, prospetti all’attore l’opportunità di modificare ex art. 183 co. 5 la domanda (da accertamento a condanna), allo scopo di soddisfare le esigenze anche pubblicistiche di economia dei giudizi.

Come precedentemente accennato, oggetto di mero accertamento possono esserlo soltanto i diritti: i fatti e le norme rappresentano elementi indispensabili che, come tali, devono essere conosciuti dal giudice, ma l’accertamento contenuto in ogni provvedimento ha per effetto unicamente i diritti. Tale affermazione trova fondamento costituzionale nell’art. 24 co. 2 Cost., che predispone una tutela sostanziale e non meramente formale al diritto di difesa della parte convenuta: qualora fosse possibile l’accertamento giudiziale del solo fatto storico e della sola norma giuridica in concreto, infatti, si avrebbe la limitazione del diritto di difesa del convenuto. Perché il diritto di difesa sia effettivamente esercitabile, quindi, la parte deve poter sapere quale sia il bene concretamente richiesto dall’attore (diritto) e quale sia il danno che gli può derivare. L’esigenza di tutela effettiva del diritto di difesa del convenuto impone di limitare l’oggetto della domanda ai diritti in modo da evitare che il processo civile incida su diritti in ordine ai quali il convenuto non abbia avuto la possibilità di esercitare gli strumenti di difesa che la legge processuale gli attribuisce: in tal modo abbiamo individuato un ulteriore limite (rispetto a quello dell’art. 100) all’ammissibilità della tutela di mero accertamento.

Nella pratica, comunque, la distinzione tra norma, diritto e fatto diviene estremamente difficile, elemento questo particolarmente problematico se si considera che da tale distinzione dipende l’ammissibilità della tutela di mero accertamento (es. nel caso di un contratto non integralmente perfezionatosi per mancanza della scadenza del termine iniziale, gli effetti definitivi non sono ancora sorti. Ci si chiede quindi se sia possibile agire in giudizio per l’accertamento di clausole contrattuali destinate ad incidere su diritti non ancora sorti).

I motivi per cui si ritiene necessario limitare il ricorso alla tutela di mero accertamento, ossia di subordinare tale ammissibilità all’esistenza di un requisito ulteriore alla mera affermazione dell’esistenza di un requisito sostanziale, sono i seguenti:

  • la tutela privatistica del convenuto contro azioni vessatorie da parte dell’attore;
  • la tutela pubblicistica di economia di giudizi e dell’effettività della tutela giurisdizionale, che induce ad evitare che la tutela di mero accertamento si traduca in un peso ingiustificato per gli organi giurisdizionali.

Il nostro legislatore non è stato in grado di tradurre queste esigenze in una disposizione che individui in modo specifico i requisiti di ammissibilità dell’azione di mero accertamento. Non resta quindi che tentare di desumere tali limiti dai principi generale dell’ordinamento

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