Quando viene proposta un’impugnazione il giudice deve effettuare dei controlli prima di pronunciare sul merito dell’impugnazione. All’esito di questi controlli l’impugnazione può essere dichiarata inammissibile o improcedibile.
Requisiti necessari affinché non sia dichiarata l’inammissibilità dell’impugnazione:
– Che l’impugnazione proposta possa essere proposta contro quella sentenza che è stata impugnata;
– Che l’impugnazione sia stata proposta nei termini per impugnare;
– Che l’impugnazione sia stata proposta osservando le formalità prescritte dalla legge (in certi casi bisogna proporre l’impugnazione in via incidentale ex art. 333 c.p.c.);
– Che l’impugnazione sia stata proposta da parte legittimata ad impugnare (che l’impugnate fosse parte del procedimento di primo grado e che fosse soccombente);
– Che chi ha impugnato non fosse acquiescente alla sentenza.

L’improcedibilità invece si ha quando l’appellante non si è costituito entro 10 giorni dalla notificazione della citazione (art. 348 c.p.c.). Se si è tempestivamente costituito, ma non compare alla prima udienza, il collegio fissa una nuova udienza di cui viene data comunicazione all’appellante che si è costituito; se non compare nemmeno a questa successiva udienza, l’appello è dichiarato improcedibile.

L’improcedibilità è prevista anche nel caso di ricorso per Cassazione (art. 369 c.p.c.): prevede che il ricorrente deve presentare un’istanza presso la cancelleria del giudice a quo (del giudice da cui proviene la sentenza impugnata). Quest’istanza è l’istanza di trasmissione del fascicolo d’ufficio alla cancelleria della Corte di Cassazione (quindi deve recarsi con tre copie: due dovranno essere depositate presso la cancelleria della Cassazione dopo vi è stato apposto il timbro, ed una dovrà essere lasciata nella cancelleria del giudice a quo). In caso non adempia a questi oneri il ricorso per Cassazione è dichiarato improcedibile.

La conseguenza dell’inammissibilità e improcedibilità sta nel fatto che l’impugnazione non può più essere proposta, quindi la sentenza appellata passa in giudicato ex art. 358 c.p.c. (o ex art. 387 c.p.c. se riguarda il ricorso in Cassazione).

Nel caso in cui si incorra in una violazione che importa improcedibilità o inammissibilità la regola è che si perde il potere di proporre quell’impugnazione quando l’improcedibilità o l’inammissibilità viene dichiarata. Fino a che non vi è la dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità la parte può cercare di porre rimedio (es. l’art. 366 bis c.p.c., ora abrogato dalla L. 69/’09, imponeva la formulazione di un quesito nel ricorso per Cassazione a pena di inammissibilità. In caso ci si dimenticasse ad es. era possibile riproporre un nuovo ricorso per Cassazione con la formulazione del quesito per evitare che venisse dichiarata l’inammissibilità).

In relazione alle precedenti disposizioni, a quanto prevede l’art. 338 c.p.c. sull’estinzione del giudizio di appello, ed a quanto previsto dall’art. 390 c.p.c. sull’estinzione del giudizio di Cassazione (può avvenire solo per rinuncia agli atti, non per inattività delle parti), che hanno come conseguenza di regola il passaggio in giudicato della sentenza appellata od oggetto del ricorso per Cassazione, alcuni hanno elaborato il principio di consumazione del potere di impugnare: prevede che il potere di impugnare sia uno e uno soltanto, e che quando viene esercitato si consumi, perciò se non è esercitato validamente non può comunque più essere esercitato. Questa opinione non è pacifica, ma è da tenere presente in quanto ha un rilievo pratico che concerne la possibilità di avvalersi in appello delle sanatorie previste dall’art. 164 c.p.c. (vedi p. 125):

– La sanatoria dei vizi di cui al primo comma dell’art. 164 c.p.c. troverà applicazione anche in appello (questo perché tale sanatoria opera sempre con efficacia retroattiva con riguardo a questi vizi);
– Riguardo la nullità dell’atto d’appello per i vizi di cui al quarto comma dell’art. 164 c.p.c. bisogna distinguere due situazioni:
Il termine per appellare scade fra la prima notificazione e la seconda: in questo caso l’appellato ha il potere di far valere quella decadenza in cui è incorso l’appellante;
Il termine per appellare non è ancora scaduto fra la prima notificazione e la seconda:

Se si ritiene applicabile l’art. 164 c.p.c. allora vi sarà una sanatoria: il procedimento può proseguire (comunque non vi è stata decadenza poiché il potere di impugnare non è ancora scaduto);
Se si ritiene che valga il principio di consumazione del potere d’impugnare, siccome quel potere è stato esercitato in modo invalido, in appello non potrà trovare applicazione la sanatoria prevista per i vizi di cui al quarto comma dell’art. 164 c.p.c.
L’art. 342 c.p.c. prevede il requisito della specificazione dei motivi d’appello (chi propone l’atto di citazione deve specificare i motivi d’appello). Conseguenze della mancanza di tale requisito:

– Secondo alcuni si ha una mera irregolarità;
– Secondo altro orientamento i motivi d’appello costituirebbero l’oggetto del giudizio d’appello (se manca la specificazione dei motivi d’appello manca l’oggetto dell’appello), quindi questo vizio è assimilato alla mancanza del requisito di cui al n. 3 dell’art. 163 c.p.c. (una delle due ipotesi di nullità dell’atto di citazione ex quarto comma art. 164 c.p.c.):
Quindi secondo alcuni se manca la specificazione dei motivi d’appello potrebbe trovare applicazione la sanatoria ex art. 164 c.p.c.;
Secondo altri interverrebbe il principio di consumazione del potere d’impugnare che impedirebbe l’applicazione della sanatoria.

 

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