È un evento anomalo perché il legislatore vorrebbe che il processo terminasse con la pronuncia di una sentenza sulla domanda. L’estinzione può essere dichiarata con ordinanza o con sentenza, ma la sentenza non pronuncia sul merito della domanda.
La ratio di quest’istituto è quella di evitare che il processo si svolga inutilmente (quando il suo svolgimento non è di interesse per nessuna delle parti). Non si può arrivare all’estinzione del processo senza il concorso della volontà delle parti.
Vi sono due cause di estinzione del processo:
– Rinuncia agli atti del giudizio (art. 306 c.p.c.): è la rinuncia alla pronuncia di una sentenza sulla domanda (quindi una rinuncia anche a tutti gli atti del processo necessari per arrivare ad un pronuncia sulla domanda).
Deve esserci la dichiarazione della rinuncia da parte di una delle parti, a cui deve seguire l’accettazione dell’altra parte costituitasi che ha interesse alla prosecuzione del giudizio (se una parte è contumace non è necessaria la sua autorizzazione). La provenienza della dichiarazione di rinuncia normalmente è dall’attore, però potrebbe provenire anche dal convenuto rispetto alla domanda riconvenzionale (il convenuto che propone la domanda riconvenzionale viene chiamato anche attore in riconvenzione), purché si ammetta l’estinzione parziale del giudizio e che il processo venga configurato come un cumulo di procedimenti autonomi che si svolgono parallelamente (quindi la rinuncia potrebbe provenire dall’attore riguardo solo ad alcune delle domande da lui proposte: in questo caso si parla di estinzione parziale).
Il problema è quello di stabilire quando una parte ha “interesse alla prosecuzione del processo”. Per fare ciò bisogna vedere da un lato come si è difeso il convenuto, dall’altro comparare il risultato conseguente all’estinzione del processo con quello cui il convenuto mira (con quello che potrebbe ottenere il convenuto). Quindi quando il convenuto può ottenere dal processo un risultato migliore di quello che deriva dall’estinzione, allora è necessaria la sua accettazione:
Se il convenuto si è difeso solo con eccezioni in rito, l’accoglimento dell’eccezione di rito determina un sentenza di rigetto in rito. Dal punto di vista del convenuto, ottenere una sentenza di rigetto in rito o l’estinzione del processo, è uguale, poiché in entrambi i casi la domanda è riproponibile per lui (per l’attore, se si estingue il processo, rimane fermo solo l’effetto interruttivo, viene meno sia l’effetto impeditivo della decadenza che l’effetto sospensivo della prescrizione).
Quindi, se il convenuto si è difeso solo con eccezioni di rito, non ha interesse alla prosecuzione del processo e pertanto non è necessaria la sua accettazione;
Se il convenuto si è difeso solo con eccezioni di merito, l’accoglimento delle eccezioni di merito determinerebbe il rigetto della domanda nel merito. Il risultato per lui è più utile poiché la domanda non è più riproponibile.
Quindi, se il convenuto si è difeso solo con eccezioni di merito, ha interesse alla prosecuzione del processo perché potrebbe ottenere un risultato migliore di quello derivante dall’estinzione del processo (il rigetto della domanda nel merito esclude la riproponibilità della domanda, che invece è possibile nel caso di estinzione);
Se il convenuto si è difeso con eccezioni sia di merito che di rito, lui non avrà interesse alla prosecuzione del processo poiché essendosi difeso anche con eccezioni di rito dimostra di essere disposto ad accettare anche un risultato equivalente a quello dell’estinzione del processo (rigetto in rito della domanda).
A questa regola vi sono due eccezioni (sono tutte eccezioni che non impediscono alla parte di arrivare ad una sentenza sul merito):
Nel caso abbia proposto l’eccezione di incompetenza (perché è prevista la traslatio iudicii);
Nel caso abbia proposto l’eccezione di difetto di giurisdizione, a meno che non sia difetto assoluto di giurisdizione (la traslatio iudicii fra una giurisdizione ordinaria ed una speciale è sempre possibile);
Se eccepisce il difetto di integrità del contraddittorio (anche qui è prevista quell’attività sanante che è l’integrazione del contraddittorio).
– Inattività delle parti (art. 307 c.p.c.):
Talvolta un’attività è prescritta entro un termine perentorio (allora se l’attività non viene compita l’estinzione è immediata).
Esempio è la mancata integrazione del contraddittorio prevista dall’art. 102 c.p.c. nel caso di litisconsorzio necessario;
Altre volte il legislatore prevede che la causa venga cancellata dal ruolo ma possa essere riassunta entro un certo termine (questo era di un anno, ed è tuttora di un anno per i processi entrati in vigore prima della L. 69/09, adesso invece è di tre mesi).
Esempio è la chiamata del terzo per ordine del giudice (se nessuna delle parti notifica la citazione al terzo, allora la causa viene cancellata dal ruolo, ma può essere riassunta entro tre mesi).
Quando vi è l’estinzione del processo, questa viene dichiarata dal giudice istruttore con ordinanza (nel caso di causa collegiale). Contro questa ordinanza è previsto uno speciale mezzo di reclamo (art. 178.2 cc.). Quando viene pronunciata l’ordinanza di estinzione da parte del giudice istruttore, le parti possono impugnare questa ordinanza con questo speciale mezzo di reclamo. La conseguenza è che se il collegio accoglie il reclamo (quindi ritiene che l’estinzione non si sia verificata), pronuncia un’ordinanza con cui rimette la causa al giudice istruttore (ordinanza non impugnabile). Se invece il collegio respinge il reclamo e conferma l’estinzione del reclamo, pronuncia sentenza. Questa sentenza può essere impugnata con l’appello, e se il giudice d’appello rileva che è stata dichiarata erroneamente l’estinzione del processo, allora emana una sentenza di rimessione della causa al primo giudice (art. 354.2 c.p.c.).
Questo reclamo può essere proposto solo contro i provvedimenti del giudice istruttore che dichiarano l’estinzione del processo, non contro quelli che negano l’estinzione. Il rimedio per la parte soccombente che ritiene che vi sia stata l’estinzione del processo è quello di impugnare in appello la sentenza emessa dal giudice istruttore (sostenendo che l’estinzione del processo si è verificata).
L’ordinanza con cui il giudice istruttore nega l’estinzione del processo è revocabile e modificabile (quindi la parte che sostiene che si è verificata l’estinzione potrà sia fare istanza di revoca o modifica, ma potrà anche riproporre la stessa questione al collegio, e questo pronuncerà sentenza).
Quando fra le parti vi è disaccordo sull’avvenuta estinzione, il giudice istruttore può rimettere al collegio le parti per la decisione di questa questione (questa è un’opinione giurisprudenziale).
Se il collegio emana un provvedimento che ha una forma sbagliata (es. se il collegio respinge il reclamo contro l’ordinanza del giudice istruttore con ordinanza anziché con sentenza) si applica il principio della prevalenza della sostanza sulla forma, per cui quell’ordinanza vale come sentenza e può essere appellata (questo principio si è affermato in forza dell’art. 111.7 Cost.: il termine “sentenza” qui viene inteso in senso sostanziale). Un provvedimento è considerato sentenza quando statuisce sui diritti soggettivi in maniera definitiva.
Quando la causa non è collegiale, ma è devoluta alla cognizione del giudice unico, si deve ritenere che il giudice istruttore pronunci direttamente con sentenza (non è ragionevole ritenere che pronunci con ordinanza perché le parti disporrebbero reclamo verso un collegio che non c’è, quindi il giudice istruttore dovrebbe cessare di essere giudice istruttore e diventare giudice unico in fase decisoria per poter pronunciare su tale reclamo). Quindi la sentenza è immediatamente impugnabile e viene meno tutta la fase del reclamo.
Se il giudice unico nega che vi sia estinzione del processo la dichiarerà con ordinanza. Il rimedio contro tale ordinanza sarà l’impugnazione della sentenza definitiva facendo valere il vizio relativo alla mancata estinzione della sentenza (si sosterrà che la sentenza è nulla).
Il regime delle ordinanze è disciplinato dagli art. 177 e 178 c.p.c.
L’art. 177 c.p.c. prevede che le ordinanze non possano mai pregiudicare la decisione della causa, sono sempre revocabili e modificabili dal giudice che le ha pronunciate (salvo le ordinanze pronunciate sull’accordo delle parti in materia di cui queste possono disporre, le ordinanze per le quali la legge prevede uno speciale mezzo di reclamo, e le ordinanze dichiarate non impugnabili).
L’art. 178 c.p.c. prevede che, quando il giudice istruttore ha deciso delle questioni con ordinanze, tutte queste questioni possono essere proposte al collegio, dopo che la causa è stata rimessa a decisione, senza bisogno dei mezzi d’impugnazione.
Il secondo comma dell’art. 178.2 prevede questo speciale mezzo di reclamo che può essere proposto solo contro le ordinanze che dichiarano l’estinzione del processo (fino al ’95 poteva essere proposto anche contro le ordinanze del giudice istruttore).
L’art. 307.4 c.p.c. prevedeva una sanatoria nell’ipotesi di estinzione del processo, qualora questo fosse riassunto.
Il legislatore ora è intervenuto affermando la regola che l’estinzione opera di diritto ed è rilevabile d’ufficio.
Un effetto dell’estinzione del processo riguarda la prescrizione. Se si estingue il processo, rimane fermo solo l’effetto interruttivo della prescrizione, viene meno l’effetto sospensivo della prescrizione e quello impeditivo della decadenza.
L’art. 310 c.p.c. disciplina gli effetti dell’estinzione nel caso di riproposizione della domanda:
1. Il primo comma dice che l’estinzione del processo non estingue l’azione (quindi la domanda può essere riproposta);
2. Il secondo comma poi stabilisce la regola generale secondo cui l’estinzione del processo rende inefficaci gli atti compiuti nel processo estinto. Vi sono però delle eccezioni:
Sentenze di merito: sono sentenze non definitive (è chiaro che se sono pronunciate e poi il processo si è estinto devono essere state sentenze non definitive in quanto il processo è proseguito).
Non sopravvivono le sentenze di rito definitive o non definitive, salvo le sentenze che regolano la competenze e la giurisdizione.
Le sentenze non definitive di merito possono avere un duplice oggetto:
Sentenze non definitive su domanda: la regola generale è quella posta dall’art. 277.1 c.p.c. tale per cui il legislatore vuole che tutte le domande vengano istruite e vi sia per ogni processo tendenzialmente una sola sentenza. Il secondo comma però prevede che quando vi è un cumulo di domande, il collegio possa, su domanda di parte, pronunciare su una sola o alcune delle domande cumulate quando per queste non è necessaria un’ulteriore istruzione e vi è un’apprezzabile interesse della parte che ne ha fatto istanza.
Questa disposizione è stata interpretata nel senso che prevedeva espressamente le sentenze non definitive su domanda. Tuttavia un orientamento sosteneva che queste tipo di sentenze non fossero ammissibili nel nostro ordinamento, ma che quando più erano le domande cumulate ed il collegio pronunciava solo su alcune di esse, si dovesse ritenere che il collegio avesse implicitamente esercitato il potere di separazione delle cause (art. 279.5 c.p.c.).
Il potere di separazione delle cause consente al collegio di separare le cause in sede di decisione, quindi la decisione su alcune delle domande è definitiva (non ci sono sentenze non definitive su domanda). Qui però si prevede espressamente il potere di separazione (deve risultare dal contenuto del provvedimento finale), mentre nell’ipotesi dell’art. 267 c.p.c. non viene menzionato il potere di separazione per cui vi è chi ha detto che sono ammesse le sentenze non definitive su domanda.
Il rilievo pratico è che per l’impugnazione delle sentenze non definitive è prevista la possibilità di fare riserva di impugnazione (fino al marzo 2006 si poteva fare sia nel caso di Appello che nel caso di ricorso per Cassazione): la parte si riserva di impugnarla insieme alla sentenza definitiva. Ammettere le sentenze non definitive su domanda significa consentire ad una parte di fare riserva d’impugnazione, viceversa ritenere che vi sia un implicito esercizio del potere di separazione comporta privare la parte di questo potere. Però soltanto il giudice dell’impugnazione poteva valutare se vi era stato o meno un implicito esercizio del potere di separazione (una parte in buona fede faceva riserva d’impugnazione, impugnava la sentenza non definitiva su domanda solo alla fine del processo e poi si poteva vedere negata tale richiesta dal giudice secondo il quale vi era stato un implicito potere di separazione).
Questo problema è durato fino al 2006 (vi erano due contrapposti indirizzi in Cassazione). Il legislatore è intervenuto modificando l’art. 61 c.p.c. che disciplina la riserva di ricorso per Cassazione prevedendo che possa essere formulata anche nei confronti di alcuna delle domande proposte (si prevede finalmente espressamente le sentenze non definitive su domanda);
Sentenze non definitive su questione preliminare di merito: sono quelle previste dall’art. 187 c.p.c. (vedi p. 63).
È stata formulata un’obiezione impeccabile, che però non viene tenuta in considerazione. Il risultato dell’estinzione del processo è che non si arriva ad una sentenza di merito sulla domanda (è questo il significato tradizionale dell’estinzione del processo). Ipotizziamo che si arrivi ad una sentenza non definitiva che nega l’eccezione (es. eccezione di prescrizione), che questa sentenza sia oggetto di riserva d’impugnazione, e che poi il processo si estingua. A questo punto si applica l’art. 129.3 disposizioni di attuazione che prevede che dal momento in cui diviene definitiva la sentenza che dichiara l’estinzione, decorre il termine per proporre appello.
La parte a questo punto propone effettivamente l’appello, il giudice d’appello ritiene fondata l’eccezione ed emana una sentenza di rigetto nel merito della domanda (ritiene quindi che la prescrizione si è verificata). Quindi così si arriva ad una pronuncia sul merito della domanda dopo l’estinzione del processo. Questo è un risultato in contrasto col significato tradizionale che viene attribuito all’estinzione del processo. Si dovrebbe a questo punto escludere dall’ambito di applicazione del secondo comma dell’art. 310 c.p.c. le sentenze non definitive su questioni preliminari di merito (invece nessuno le esclude).
Sentenze che regolano la competenza: queste sono le sentenze pronunciate dalla Corte di Cassazione adita con regolamento di competenza.
Vi è chi ne ha dato un’interpretazione estensiva facendovi rientrare le sentenze pronunciate dalla Cassazione sulle questioni di competenza quando è adita non solo con regolamento di competenza, ma anche con ricorso per Cassazione per violazione delle norme sulla competenza quando non è prescritto il regolamento di competenza (motivo n. 2 art. 360 c.p.c.).
Una terza interpretazione ha affermato che è incongruo ammettere che sopravvivano le sentenze che regolano la competenza e non quelle pronunciate dalla Cassazione adita con regolamento di giurisdizione (questo perché l’art. 65 della legge sull’ordinamento giudiziario afferma che la Cassazione è l’organo supremo regolatore della giurisdizione).
Una quarta interpretazione vi fa rientrare anche le sentenze pronunciate dalla Cassazione adita con ricorso per Cassazione (ex motivo n. 1 art. 360 c.p.c.).
3. Il terzo comma disciplina gli effetti delle prove raccolte nel processo estinto: si afferma che nel nuovo processo queste sono valutate “a norma dell’art. 116.2 c.p.c.” (questo parla degli argomenti di prova).
Secondo una prima opinione le prove nel nuovo processo cessano di avere efficacia legale (diventano liberamente valutabili). Le prove legali sono quelle che derogano alla regola generale secondo cui le prove sono valutate dal giudice secondo il suo prudente apprezzamento (le prove legali invece hanno un efficacia vincolate per il giudice). Questa opinione è stata criticata perché ad es. le prove precostituite avranno la stessa efficacia anche nel nuovo processo (sarà sempre possibile vincere l’efficacia dell’atto pubblico con la querela di falso). La critica principale investe la confessione. Vi sono due tipi di confessione:
Confessione giudiziale:
Spontanea: quando è contenuta in un atto del processo sottoscritto personalmente dalla parte (non dal difensore);
Provocata: quando viene assunta mediante interrogatorio formale.
Confessione stragiudiziale.
Si è detto che la confessione, quando è provocata con interrogatorio formale, in realtà viene resa davanti al difensore tecnico della controparte (quindi davanti ad un rappresentate della parte) e pertanto avrà comunque valore di prova legale perché è confessione stragiudiziale.
Altra opinione afferma che tutte le prove conservano la loro efficacia originaria nel nuovo processo. È un’opinione contraria al dato letterale.
Una terza opinione cerca di riportarsi all’art. 116.2 c.p.c. che è espressamente previsto dal terzo comma dell’art. 310 c.p.c. Questo parla degli argomenti di prova, quindi le prove nel secondo processo dovrebbero essere considerate come argomenti di prova. Qui però si pone il problema di stabilire cosa siano gli argomenti di prova:
C’è chi dice che gli argomenti di prova, che la legge dice che possono essere dedotti da qualsiasi comportamento delle parti nel processo, avrebbero una funzione integrativa delle prove, nel senso che di per sé non possono essere l’unico fondamento di una decisione (non sono sufficienti a fornire una prova, possono solo integrare una prova già assunta);
Altri ritengono che gli argomenti di prova possono essere assimilati alle presunzioni semplici ex art. 2729 cc. (vedi p. 84). Dovrebbero permettere di arrivare alla conoscenza di fatti ignoti partendo dal comportamento delle parti nel processo. Le presunzioni semplici però possono essere ammesse solo quando sono gravi, precise e concordanti, quindi dovrebbero esserci può argomenti di prova. Nel loro complesso gli argomenti di prova potrebbero anche formare una prova. La giurisprudenza però ritiene sufficiente anche una sola precisione semplice per arrivare alla conoscenza di un fatto ignoto. Analogamente ritiene che anche un solo argomento di prova possa essere sufficiente per fondare una vera e propria prova, quindi che una decisione possa fondarsi anche su un unico argomento di prova.