Queste considerazioni potrebbero riproporsi per la criminalizzazione in concreto. Ad es. è la polizia a decidere sulla base di parametri solo approssimativamente definiti dalla legge se insistere nelle indagini o procedere all’arresto. Altrettanto significativa è la discrezionalità della magistratura. In Italia vige il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale: art.112 : il PM ha l’obbligo di esercitare l’azione penale.

Il PM esercita azione penale se non sussistono i presupposti per la richiesta di archiviazione mentre presenta richiesta di archiviazione se la notizia di reato è infondata. La consapevolezza del carattere selettivo dei processi di criminalizzazione assume nel dibattito dell’art.112 cost un peso rilevante. Naturalmente la curiosità si appunta soprattutto su quegli ordinamenti che hanno optato per la soluzione della discrezionalità dell’azione penale.

Accanto ai modelli di obbligatorietà e discrezionalità la dottrina ha potuto identificare un terzo modello definito “intermedio” ossia ispirato a un principio di legalità attenuata o di opportunità circoscritta, es. il Crown Prosecution Service CPS costituito in Inghilterra perché si riteneva che il compito di indagare sui reati, raccogliere le prove e arrestare i sospetti potesse interferire con l’imparzialità della valutazione del caso e con le decisioni relative alla necessità e alla probabilità di successo dell’azione penale. Il CPS ha come compito fondamentale di decidere in merito all’opportunità di esercizio dell’azione penale. Iter:la polizia raccoglie le prove, le trasmette al CPS che decide se iniziare azione penale o no. Si hanno 2 criteri:

1- Esistenza di prove sufficienti (evidential test): non si procede se le prove non sono adeguate o non si ha una realistica prospettiva di condanna, secondo il principio fondamentale della giustizia per cui nessuno dovrebbe trovarsi esposto al rischio di un procedimento senza che esistano basi solide

2- Criterio del pubblico interesse (public interest test): si rinuncia a procedere anche quando sussistano prove sufficienti ove tale interesse sconsigli l’inizio dell’azione penale.

La probabilità che l’azione penale venga esercitata dipenderà soprattutto dalla gravità del reato. I fattori pro e contro all’azione penale vengono soppesati attentamente ed è qui che si manifestano i margini di maggiore discrezionalità.

Il modello inglese appare complessivamente assai istruttivo anche perché codifica alcune delle motivazioni che, anche in altri sistemi governano di fatto i processi decisionali alla base dell’esercizio dell’azione penale. La portata euristica di tale modello può andare a beneficio anche della riflessione in corso sulla legittimità o funzionalità di sistemi che adottano l’opposto principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Su quello austriaco di inizio secolo come ricordava anni fa uno studioso italiano aveva già potuto modularsi qualche nota di disincanto: il principio di legalità non era altro che una bugia convenzionale da non disvelare per la tradizione.

In Italia la questione è stata investita dal circuito politico-massmediologico, anche attizzato dalle ben note controversie sull’operato dei magistrati dell’inchiesta “mani pulite”. La riflessione scientifica ha avanzato dubbi sulla assolutezza della regola dell’obbligatorietà della punizione generalizzata. La dottrina non si è peraltro nascosta la difficoltà di assicurare comunque adeguata trasparenza e controllo ai criteri adottati dalla prassi e di risolvere i problemi di bilanciamento delle molteplici esigenze in gioco anche una volta legalizzata la discrezionalità.

Se è necessario provvedere al controllo e alla trasparenza della discrezionalità dei pubblici ministeri nella decisione in merito all’esercizio dell’azione penale, non meno impellente è dunque tracciare con ferrei contrappesi democratici una linea di demarcazione tra le mere pressioni lobbistiche e le deviazioni parlamentari.

 

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