La Corte Costituzionale ritiene che “dall’insieme delle norme dell’ordinamento” sia possibile trarre i criteri idonei a chiarire “il significato della locuzione associazione religiosa”: ebbene, tali criteri sono quelli “che qualificano l’ordinamento dello Stato i fini di religione e di culto”.

Il ricorso al criterio del fine di religione o ci cultoha caratterizzato l’intera tradizione giuridica italiana”.

Il fine di religione e di culto riguarda quindi opere rivolte a ceti che – nella divisione classista di un tempo – appaiono socialmente ed economicamente inferiori.

Il fine di religione o di culto coincide con il soddisfacimento delle esigenze religiose dei cittadini, e costituisce perciò interesse pubblico la promozione delle iniziative che ne garantiscono il conseguimento.

Una volta stabilito che il criterio per l’assegnazione di risorse materiali e giuridiche è quello del fine di religione o di culto perseguito da un soggetto, il problema è solo rinviato e non ancora risolto, in quanto il fine è una astrazione, ed è ricavabile solo da concrete attività che ne costituiscano l’adeguato mezzo di raggiungimento.

Il fatto è, però, che non sempre un’attività indiscutibilmente funzionale ad un fine di religione o di culto presenta una valenza esclusivamente religiosa.

Se si considerassero attività di religione o di culto, ai fini di interventi finanziari positivi o negativi anche queste a doppia valenza, vi sarebbe una plateale discriminazione rispetto agli organismi che perseguono queste stesse attività ponendosi però in una esclusiva prospettiva statualistica. Pertanto, quale che sia la valutazione di queste attività dal punto di vista confessionale, esse non possono assurgere a criterio per l’interventismo dello Stato. Questo potrà esplicare i suoi interventi giustificati dalla meritorietà del fine di religione o di culto prendendo come punto di riferimento solo attività che abbiano un’esclusiva valenza religiosa, senza autonoma rilevabilità da altri punti di vista da altri punti di vista.

Va precisato che la determinazione delle attività di religione e di culto non è condizionata dai tipi di attività che il soggetto stesso ritiene espressive del fine di religione così come lui stesso se lo prospetta. Insomma la rilevazione del fine di religione e di culto è fatta dallo Stato con criteri del tutto autonomi a quelli confessionali.

Il fine di religione e di culto costituisce dunque il criterio per individuare i gruppi qualificabili come religiosi. Va avvertito però che il criterio deve considerarsi oggettivo, nel senso che non intende individuare direttamente un soggetto come religioso assegnandogli comunque risorse materiali e giuridiche sulla base di questa semplice qualificazione.

Stante la possibilità che accanto alla finalità principale ve ne siano altre, il trattamento speciale delle attività svolte in genere da un soggetto avente fine di religione o di culto costituirebbe per questo soggetto un ingiusto privilegio rispetto a qualsiasi altro soggetto che, non essendo qualificabile come religioso, si troverebbe a svolgere le identiche attività del primo senza le facilitazioni accordate al primo.

Invece il criterio del fine di religione o di culto ha carattere oggettivo: vale a dire che non verrà facilitata l’attività, di qualsiasi genere essa sia, solo perché svolta da un soggetto religioso: questo soggetto avrà l’aiuto finanziario e giuridico dello Stato solo con riferimento al peculiare tipo di attività considerata direttamente funzionale al raggiungimento del fine di religione o di culto.

 

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