Dal secolo scorso, ha preso avvio un processo di diversificazione dei modelli contrattuali di regolazione del lavoro. Prima di allora l’evoluzione della disciplina inderogabile di legge e della contrattazione collettiva aveva gradualmente condotto all’affermazione di un modello rigido. In particolare, quel modello era caratterizzato: a) dalla durata indeterminata; b) da un orario di lavoro “pieno” ed ininterrotto, ossia corrispondente alla durata normale della giornata lavorativa, per tutti i giorni dell’anno, con la sola eccezione dei giorni festivi e di riposo; c) dalla necessaria imputazione giuridica del rapporto di lavoro al soggetto effettivo utilizzatore della prestazione resa dal lavoratore.

Il modello “standard” dei rapporti di lavoro è stato posto in discussione da una pluralità di ragioni. La prima ragione è stata la sopravvenuta eccessiva rigidità di quel modello rispetto alle esigenze delle imprese di organizzare la propria attività produttiva in modo flessibile. Una seconda ragione è stata rappresentata dall’idea che il modello descritto comprima oltremisura anche l’autonomia negoziale del lavoratore.

Una terza ragione è stata individuata negli effetti che le tutele riconosciute al modello “standard” possono provocare sulla quantità complessiva dell’occupazione e sulla distribuzione dei posti disponibili, impedendo che vengano regolarizzate opportunità di lavoro non rispondenti a quel modello e realizzando una rete di protezione che garantisce i già occupati, ma rappresenta una “barriera” per i soggetti che, invece, sono in cerca di impiego. L’orientamento del legislatore si è, quindi, evoluto nella direzione di introdurre modelli di regolazione dei rapporti di lavoro diversi da quello “standard”, e perciò definiti “flessibili”.

Sono stati dunque introdotti e regolati: il “contratto di formazione e lavoro”, per favorire l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, il “contratto di lavoro a tempo parziale”, il “contratto di lavoro interinale”, il “contratto di somministrazione di lavoro”, il “contratto di lavoro intermittente”, il “contratto di lavoro ripartito” e il “contratto di inserimento”. Inoltre, il legislatore ha profondamente rivisto e disciplinato ex novo la forma contrattuale di “apprendistato”, per adeguare anche essa alle mutate caratteristiche ed esigenze del mondo del lavoro.

Va evidenziato che la scelta del legislatore di diversificare i modelli contrattuali è stata attuata mantenendo sempre fermo l’impianto generale della disciplina del lavoro subordinato. Si è realizzato, così, un processo che può essere definito di “articolazione” e “destandarizzazione” della disciplina del lavoro subordinato, in quanto l’autonomia privata è stata abilitata a instaurare rapporti sottratti all’applicazione di specifiche caratteristiche od effetti riconosciuti al modello “standard”, ma non di “detipicizzazione” in senso proprio, in quanto le varianti di disciplina si innestano comunque sul tipo legale del “contratto di lavoro subordinato”.

La centralità di tale ruolo risulta, inoltre, ulteriormente rimarcata dagli interventi con i quali il legislatore mira ad evitare che altri tipi contrattuali (lavoro autonomo, lavoro a progetto, associazione in partecipazione) siano utilizzato per eludere le tutele proprie del lavoro subordinato, ed a ricondurre nell’ambito di quest’ultimo, i rapporti ritenuti di dubbia qualificazione.

Si va consolidando la consapevolezza che l’attuale situazione del mercato globalizzato non consente di fare a meno di modelli di lavoro flessibili, non potendo altrimenti farsi fronte ad oggettive ed ineliminabili esigenze di lavoro non corrispondenti al modello “standard”. Al fine di evitare uno sviluppo ulteriore dell’utilizzo dei modelli flessibili, sono stati apprestati interventi diretti a rendere meno rigida la stessa disciplina generale del contratto di lavoro subordinato.

In effetti, evidenze empiriche hanno dimostrato che, in periodi di crisi, una eccessiva limitazione della possibilità di utilizzare modelli flessibili di regolazione dei rapporti di lavoro non determina una maggiore quantità di assunzioni a tempo indeterminato, bensì la perdita di opportunità di impiego o l’aumento del lavoro “nero”. La diffusione della “precarietà” non dipende dalla introduzione dei modelli di lavoro flessibili, bensì dalla debolezza della situazione economica. Infine, si deve amaramente constatare che la storica arretratezza del tessuto produttivo di una parte considerevole del Paese fa sì che si faccia fatica a rispettare anche la disciplina legale dei contratti flessibili, atteso che continua ad essere diffusa la piaga del lavoro “irregolare”.

 

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