L’inquadramento del sindacato e dell’attività sindacale nel diritto privato è, insieme, espressione e conseguenza del riconoscimento giuridico della diversità tra l’interesse collettivo, di cui il sindacato stesso è portatore, e l’interesse generale, di cui è portatrice l’intera comunità eretta a Stato, e che acquista concretezza attraverso le procedure costituzionali. Il sindacato è, invece, l’organizzazione di un gruppo di lavoratori e ne esprime gli interessi; per quanto possa essere grande e numeroso questo gruppo, esso non viene mai a coincidere con la società nel suo complesso: è, cioè, pur sempre una parte della società ed il suo è pur sempre un interesse di parte.

L’interesse collettivo non deve neanche essere confuso con l’interesse individuale dei singoli lavoratori aderenti al sindacato stesso. L’interesse collettivo non è la somma di interessi individuali, ma la loro combinazione ed è indivisibile, nel senso che viene soddisfatto non già da più beni atti a soddisfare bisogni individuali, ma da un unico bene atto a soddisfare il bisogno della collettività.

L’interesse collettivo viene determinato non attraverso un’astratta e impossibile media tra gli interessi individuali, ma in una concreta mediazione tra i diversi componenti del gruppo, che si svolge attraverso i procedimenti di formazione della volontà collettiva. L’interesse collettivo, come d’altronde quello pubblico o generale, non è un’essenza ontologica, bensì una convenzione linguistica che designa l’esito di un processo formalizzato di formazione della volontà di una pluralità organizzata di persone. Anche esso dipende, perciò, da una scelta volontaristica, come quella che dà origine al gruppo professionale.

Il carattere di indivisibilità dell’interesse collettivo ci consente di comprendere meglio il problema del rapporto tra sindacato e non iscritti, in favore dei quali il primo agisce ugualmente. Infatti, ove gli imprenditori potessero praticare, nei confronti dei lavoratori non aderenti al sindacato, condizioni economiche e normative peggiori di quelle che devono praticare nei confronti degli iscritti allo stesso, preferirebbero dare occupazione ai primi anziché ai secondi.

D’altronde assicurare ai lavoratori non iscritti i benefici della contrattazione collettiva può giovare allo stesso sindacato, perché dalla limitazione degli effetti di questa esso può subire una perdita della propria forza contrattuale, vedendo disertata la lotta da parte dei non iscritti in quanto non interessati alle rivendicazioni.

Risulta così che la pressione del sindacato per estendere l’ambito di applicazione dei propri contratti collettivi si spiega non tanto per la investitura della qualità di rappresentante o titolare di un ufficio o di una funzione di tutela di un interesse alieno quale sarebbe l’interesse generale della categoria, quanto, invece, alla luce di una corretta valutazione degli interessi degli stessi organizzati.

Nel linguaggio tecnico giuridico, spesso l’espressione interesse collettivo è utilizzata in modo più o meno fungibile con quella di interesse diffuso, nata in relazione allo svilupparsi di una tendenza giurisprudenziale ad introdurre forme di tutela di interessi di cui proprio per la loro ampia diffusione, è difficile individuare il titolare e, dunque, colui che è legittimato a farli valere in giudizio. I due concetti sono affini nel distinguersi, da un lato, dall’interesse individuale e, dall’altro, dall’interesse pubblico o generale ma, ciononostante, non vanno confusi: è essenziale, infatti, per l’interesse collettivo e non per l’interesse diffuso, la sua appartenenza ad una organizzazione che ne è titolare.

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