L’art. 26 legge TAR ha conferito al G.A. il potere di condannare l’amministrazione al pagamento delle somme di cui risultasse debitrice. Venne così introdotta una nuova azione tra quelle ammesse.
La norma, tuttavia, presentava un ambito di applicazione molto ristretto: l’azione di condanna, infatti, era limitata alla condanna al pagamento delle somme di denaro di cui l’amministrazione risultasse debitrice. Si è voluto cioè far riferimento ad un rapporto di tipo contrattuale nel quale l’amministrazione si fosse vincolata al pagamento di somme di denaro e, all’epoca, il rapporto non poteva essere che ricondotto, quasi esclusivamente, al P.I.
La pronuncia di una sentenza di condanna presentava evidenti vantaggi: essa infatti costituiva titolo esecutivo e come tale rendeva possibile una esecuzione forzata. Nonostante ciò nella pratica si continuò a preferire l’utilizzazione di un giudizio di ottemperanza e cioè di una azione comunque esercitabile dinanzi allo steso G.A. e le ragioni risultano diverse:
- La validità e l’efficacia di quell’azione;
- La difficoltà obiettiva per il cittadino di aggredire l’amministrazione;
- Il ricorso a tale azione è altresì la conseguenza di un atteggiamento costante del G.A. che ha mantenuto anche nelle azioni di condanna, così come in quelle di accertamento, lo schema di decisione tipico dell’azione di impugnazione.
La sentenza che accoglie un ricorso di impugnazione si conclude, normalmente, con l’annullamento dell’atto impugnato ovvero, semplicemente, con l’accoglimento del ricorso senza ulteriori chiarimenti.
Nel momento in cui però si esercita un’azione di condanna o anche di accertamento, è evidente che il dispositivo dovrà essere diverso poiché occorrerà individuare esattamente:
- i contorni dei rapporti tra le parti
- l’ambito spaziale e temporale del diritto nonché
- l’entità delle somme al pagamento delle quali si condanna l’amministrazione.
L’abitudine del G.A. di pronunciare dei dispositivi di carattere generico ha fatto sì che anche la sentenza di condanna si risolvesse in una semplice condanna generica.
Questa situazione è destinata ad evolversi in termini di maggiore specificità. Non dimentichiamo, infatti, che per effetto dell’art. 35 d.lgs. 80/98 nelle materie attribuite alla cognizione in sede di giurisdizione esclusiva, il G.A. può condannare al risarcimento del danno ex art. 2043 c.c.
Il potere è stato poi esteso anche alla giurisdizione generale di legittimità ai sensi dell’art. 7 l. 205/2000.
In questo caso, infatti, il giudice sarà tenuto ad individuare esattamente nella motivazione i presupposti della sua pronunzia e nel dispositivo il contenuto specifico della medesima. Oltretutto, afferma il Gallo, l’ordinamento processuale sembra ipotizzare due tipi di pronunce del giudice:
- una di semplice accertamento;
- una di condanna al risarcimento.
Se la prima, quindi, riprende i contorni classici della pronunzia di accoglimento, la seconda deve necessariamente avere un maggiore livello di specificità.
L’azione di condanna ha visto notevolmente ampliate le proprie possibilità di utilizzazione a seguito dell’ampliamento delle ipotesi di giurisdizione esclusiva, della individuazione della possibilità di una condanna al risarcimento del danno in forma specifica o equivalente e alla stessa possibilità di ottenere dal G.A. una pronunzia ordinatoria per ciò che concerne la tutela nei confronti della pubblica amministrazione.
Alla luce di queste considerazioni la parte potrà dunque proporre l’azione di condanna al risarcimento del danno ingiusto derivante:
- dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa
- dal mancato esercizio dell’attività obbligatoria
- dalla lesione di diritti nei casi di giurisdizione esclusiva
Sussistendo i presupposti previsti dall’art. 2058 cc può essere anche chiesto il risarcimento del danno in forma specifica.
Il contenuto del potere giurisdizionale di condanna è meglio definito dall’art. 34 cpa, il quale prevede che il giudice, se accoglie il ricorso, condanna:
- al pagamento di una somma di denaro, anche titolo di risarcimento del danno
- all’adozione di misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio
- e dispone misure di accertamento in forma specifica
La possibilità di disporre il risarcimento in forma specifica, in passato, secondo parte di dottrina e giurisprudenza, avrebbe consentito di ottenere sia un ordine a un facere specifico in funzione di risarcimento, sia un vantaggio diverso e ulteriore.
Si sarebbe trattato, in sostanza, di un ordine avente anche ad oggetto l’emanazione del provvedimento illegittimamente negato, previo accertamento della fondatezza della pretesa della parte: questa misura presenta profili di analogia con l’azione di adempimento prevista dall’ordinamento tedesco, con cui si può tenere un ordine all’amministrazione a provvedere, a fronte di un silenzio o di un provvedimento di rifiuto, ovvero una decisione che produca i medesimi effetti del provvedimento illegittimamente rifiutato o omesso.
L’attuale disciplina codicistica esclude che una forma di tutela di adempimento possa essere ottenuta mediante l’azione di annullamento, in quanto ai sensi dell’art 34 cpa l’adozione di un nuovo atto, che potrebbe configurarsi come adempimento è consentita unicamente in sede di giurisdizione di merito.
In secondo luogo, la reintegrazione in forma specifica è configurata come una modalità di risarcimento del danno ingiusto, ossia come rimedio risarcitorio per ovviare a un danno, e postula, con requisiti diversi più gravi rispetto all’azione di adempimento, la commissione di un illecito.
L’applicazione dell’art. 2058 cc richiede una grande attenzione da parte del giudice, in ragione dell’interferenza con l’interesse pubblico delle misure che può adottare.
Inoltre, l’art. 34 cpa si riferisce alla condanna al pagamento di una somma di denaro anche titolo di risarcimento del danno: sembrerebbero ammesse sentenze di condanna al pagamento di somme a titolo diverso da quello risarcitorio, ad es. a titolo di restituzione, in particolare nelle materie di giurisdizione esclusiva.
Il Consiglio di Stato ha sostenuto che sul piano cognitorio sarebbe desumibile, dal combinato disposto degli artt. 30 e 34 cpa, una azione di condanna finalizzata a ottenere l’adozione dell’atto amministrativo richiesto.
L’azione, che prescinde dunque dalla sussistenza di un illecito, sarebbe esperibile anche in presenza di un provvedimento espresso di rigetto, ma soltanto in casi residuali: essa, infatti, è ammessa unicamente ove non vi osti la sussistenza di profili di discrezionalità amministrativa e tecnica.
La situazione, dunque non è ancora stabilizzata.
Per altro verso, sotto il profilo probatorio, l’accoglimento dell’azione di adempimento è subordinato alla prova della fondatezza della pretesa, che può derivare sia dalla valutazione degli adempimenti già posti in essere dall’amministrazione del procedimento e acquisiti nel giudizio, sia dall’impiego degli altri mezzi istruttori disciplinati dal codice.
Dal punto di vista procedurale, l’art. 30 cpa esordisce affermando che l’azione di condanna può essere proposta contestualmente ad un’altra azione, dunque non solo a quella di annullamento, o, nei soli casi di giurisdizione esclusiva ed in quelli previsti dalla norma medesima, anche in via autonoma.
ART 30 CPA: 1. L’azione di condanna può essere proposta contestualmente ad altra azione o, nei soli casi di giurisdizione esclusiva e nei casi di cui al presente articolo, anche in via autonoma. 2. Può essere chiesta la condanna al risarcimento del danno ingiusto derivante dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria. Nei casi di giurisdizione esclusiva può altresì essere chiesto il risarcimento del danno da lesione di diritti soggettivi. Sussistendo i presupposti previsti dall’articolo 2058 del codice civile, può essere chiesto il risarcimento del danno in forma specifica. 3. La domanda di risarcimento per lesione di interessi legittimi è proposta entro il termine di decadenza di centoventi giorni decorrente dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo. Nel determinare il risarcimento il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti. 4. Per il risarcimento dell’eventuale danno che il ricorrente comprovi di aver subito in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento, il termine di cui al comma 3 non decorre fintanto che perdura l’inadempimento. Il termine di cui al comma 3 inizia comunque a decorrere dopo un anno dalla scadenza del termine per provvedere. 5. Nel caso in cui sia stata proposta azione di annullamento la domanda risarcitoria può essere formulata nel corso del giudizio o, comunque, sino a centoventi giorni dal passaggio in giudicato della relativa sentenza. 6. Di ogni domanda di condanna al risarcimento di danni per lesioni di interessi legittimi o, nelle materie di giurisdizione esclusiva, di diritti soggettivi conosce esclusivamente il giudice amministrativo. |
Con riferimento all’azione promossa contestualmente non vi sono questioni particolari circa il termine, che sarà quello di proposizione dell’azione correlata.
Con riferimento all’azione proposta autonomamente, invece, sappiamo che il ricorrente deve agire nel termine di decadenza di 120 g decorrenti dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo. P
In questi casi, il giudice effettua, in deroga ai principi generali un accertamento dell‘illegittimità dell’atto, senza pronunciarne l’annullamento.
Per il caso del risarcimento dell’eventuale danno che il ricorrente comprovi di aver subito in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento, il termine di 120 g non decorre fintanto che perdura l’inadempimento e inizia comunque decorrere dopo un anno dalla scadenza del termine per provvedere.
L’art. 30 co. 5, riferendosi al caso in cui sia stata proposta un’azione soltanto di annullamento, chiarisce che la domanda risarcitoria, autonoma nel senso di non contestuale in quanto subordinata alla preventiva impugnativa, può essere formulata anche nel corso del giudizio o, comunque, sino a 120 g dal passaggio in giudicato della relativa sentenza.
La parte, dunque, una volta impugnato l’atto può attendere lo svolgimento del giudizio prima di azionare la pretesa risarcitoria legata al provvedimento, entro il termine ora indicato.
In generale, sono escluse domande nuove in appello mentre l’azione risarcitoria può essere azionata in primo grado ma non in sede di ottemperanza, ove viceversa possono essere chiesti i danni maturati dopo la decisione del giudice.
Come anticipato, se il codice consegna alla parte la scelta di azionare in via autonoma la pretesa risarcitoria, non va dimenticato che prevede anche la regola secondo cui, nel determinare il risarcimento il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti. Egli esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza.
Di fatto, gli avvocati che intendano azionare la pretesa risarcitoria sono incentivati a impugnare nei termini o, comunque, a sollecitare interventi in autotutela, salvi i casi in cui l’interesse all’annullamento oggettivamente non esista, sia venuto meno o non sia adeguatamente suscettibile di soddisfazione.
Bisogna infine ricordare che, quando nel corso del giudizio l’annullamento il provvedimento impugnato non risulta più utile al ricorrente, il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se sussiste l’interesse ai fini risarcitori.
Questo riconoscimento di un potere di ufficio del giudice restringe i margini d’applicazione dell’istituto dell‘improcedibilità, atteso che un ipotetico interesse al risarcimento difficilmente è suscettibile di essere escluso.