Alla fine dell’XI secolo ci fu un’improvvisa fiammata d’interesse per i Tres libri del Codice giustinianeo. Ciò appare assurdo in quanto quei testi evocavano la formazione imperiale sul fisco, sulle concessioni di beni pubblici in un’epoca in cui i Comuni stavano trionfando. In questo contesto il Piacentino stava a Bologna, poi andò a Piacenza e infine tornò a Montpellier: i suoi studi sui tres libri finirono per la morte, non potendo quindi completare le summae su queste opere ma riuscendo a farne solo il titolo: de municipibus. Intanto nell’epoca si stava affacciando un nuovo personaggio: Pillio il quale amava sognò il Piacentino che lo sollecitava a continuare l’opera sui Tres libri che lui aveva lasciato incompiuta e Pillio si mise quindi al lavoro. Il primo documento che egli produsse in tal senso è del 1181, ma anche lui morì. Gli editori della prima edizione di queste summae allora acclusero anche per l’ultima parte gli studi di Rolando da Lucca.

Pillio. Egli prima di cominciare a fare queste summae aveva redatto il suo Libellus disputatorius che era un originale e lungo elenco di principi teorici tratti dalla compilazione giustinianea corredati dalle fonti normative sia favorevoli che contrarie. Esso era un testo rivolto agli studenti, che in seguito egli ampliò per creare un sistema di studio che abituasse gli studenti al dibattito sui principi e sulla tecnica dell’argomentazione. Il libellus era ricco di brocardi: Kantorowicz fa discendere questa parola dalle parole pro-contra il che rende il bene poi in realtà l’idea in quanto l’istituto appare capace di enucleare dalle leggi principi detti generalia a cui vengono affiancate le fonti che li suffragano e quelle che li contrastano (cioè gli argomenti pro e contro) a cui poi si cominciarono a mettere solutio a questo contraddittorio. Questo genere letterario non è di natale bolognese in quanto nascono in ambiente canonistico e anche longobardistico, ma ebbero una diffusione rapidissima anche presso Bologna dopo che Azzone si impadronì della raccolta di Ottone di Pavia (scuole minori) aggiungendovi le solutiones che mancavano consacrandone quindi il successo.

Generalia. Essi talvolta prendono anche il nome di argumenta in quanto dai brocardi in poi nacque una tecnica argomentativa solo giuridica in quanto nacque tra il due e trecento la catalogazione dei modi arguendi. Essi erano detti anke loci perché avevano “luogo” nel Corpus iuris.

Metodo brocardico (incentivo all’utrumque ius…) Il presupposto di esso è quell’approccio critico a Giustiniano che imponeva di passare dalla mera comprensione del testo assicurata dalle glosse alla discussione degli interrogativi che le fattispecie normative presentavano. La figura didattica che più servì per far progredire la scienza è senza dubbio la questio: essa oppone due gruppi di argomenti contrari da cui bisognava estrarre una solutio. A fare ciò si era cominciato già dai tempi di Bulgaro col discutere testi giustinianei discordanti per metterli d’accordo: era una questio semplice detta legitima perchè aveva finalità sistematiche delle leges. Successivamente si crearono le questio de facto cioè quelle inventate dal maestro mettendo a fronte 2 gruppi di fonti normative prese come argumenta contrari. Inoltre spesso queste questioni erano disputatae tra studenti in quanto il maestro proponeva un caso controverso incaricando a una parte di scolari di difendere la tesi e a un’altra parte di argomentare quella opposta. Ciò ricalcava il processo: il maestro in questo caso faceva da giudice e decideva. In seguito nacquero le quaestiones ex facto emergentes: con esse i casi non erano più di fantasia ma estratti dalla prassi giudiziaria confrontandosi quindi con leggi di Giustiniano ma anche con statuti, consuetudini, capitoli barbarici e costituzioni di re e imperatori, canoni ecclesiastici e ciò costituì il più solido ponte tra scuole e tribunali. Un importante maestro aperto alla prassi fu proprio Giovanni Bassiano che utilizzò il metodo brocardico non solo nelle esercitazioni ma anche durante le lezioni.

Libri feudorum. Questi libri furono assunti da Pillio e dalla scuola di Modena come materie di insegnamento della scuola romanista. In questa opera Pillio parla del problema delle regalie e delle concessioni di terre fiscali (consuetudini feudali longobarde…) strappando in questo modo questa materia dalle strettoie di una scienza longobardistica rozza e in declino. Il nucleo di questa opera era costituito da due lunghe lettere che il giudice e console milanese Oberto dall’Orto dice di aver mandato verso la metà del secolo al figlio Anselmo e il giovane si sarebbe lamentato che nell’alma mater (la scuola di Bologna) un diritto importante come quello feudale fosse passato sotto silenzio e quindi l’opera passa a descrivere il diritto feudale. A questa prima edizione ne seguì una seconda detta ardizzoniana perchè erroneamente si penso che Iacopo di Ardizzone fosse stato il primo a leggerla e studiarla. La terza edizione fu detta accursiana o vulgata ed ebbe l’onore di esser inserita nel Corpus iuris civilis e questo diventò il grande colpo di fortuna di quest’opera. La parte finale del testo recava poi 2 costituzioni imperiali: in questo modo gli imperatori chiesero e ottennero che le loro leggi fossero equiparate a Giustiniano costituendo oggetto dell’insegnamento.

Figura tecnico-giuridica del feudo lombardo. Essa nasce proprio con gli studi di Pillo sui Libri feudorum e sulla Summa che egli fece di quei libri. In essi si vedono definite l’azione spettante al vassallo come actio in rem, e dominium utile il suo diritto al beneficio. Faceva la comparsa per la prima volta la teoria del “dominio diviso”: quello diretto spettava a chi aveva la titolarità astratta del bene, quello utile a chi ne aveva il godimento concreto tale da configurare un diritto reale su cosa altrui. Fondamentalmente si crea un’immagine del vassallo quasi-proprietario e ciò è il risultato che scaturisce dalla costituzione di Corrado II del 1037 in quanto egli aveva assicurato la stabilità del beneficio e la trasmittibilità ereditaria ai discendenti diretti creando un diritto reale molto intenso pari almeno a quello spettante agli enfiteuti che una costituzione di Teodosio e Valentiniano definiva fundorum domini. Nella prassi lombarda accadde che l’investitura che era tecnicamente l’atto di assegnazione dei benefici era diventata anche un contratto agrario gemello dell’enfiteusi, del livello e della precaria: Anselmo dell’Orto lo testimonia. Quindi l’idea di Pillio era possibile in quanto la situazione consuetudinaria gli era congeniale. Tuttavia le spiegazioni andavano date sempre in base al diritto giustinianeo, per questo Pillo prese spunto dalle fonti giustinianee che attribuivano un’actio in rem al superficiario e all’enfiteuta per spiegare come fosse naturale assegnarla per analogia anche al feudatario. Inoltre dato che queste azioni erano definite utiles venne spontaneo saltare dal piano formale delle azioni a quello sostanziale dei corrispondenti diritti soggettivi parlando quindi di dominium utile. L’idea di azione utile nel diritto romano era ricavabile per i glossatori dall’actio legis Aquiliae che spettava per i danni inferti ad altre persone ma il pretore concesse anche un actio legis Aquiliae utilis al proprietario danneggiato di un bene posto alla custodia di altri. Neppure l’actio publiciana (fondata sulla finzione che fosse trascorso il tempo per acquisire il bene in usucapione) aveva un qualche presupposto utile perchè ciò non dicevano le fonti. Bulgaro sosteneva che la prescrizione ventennale o trentennale (praescriptio longi temporis) non facesse acquisire la proprietà ma il solo effectus domini, Giovanni Bassiano sostenne che questo effectus domini non era altro che il dominium utile e sarebbe stata questa la strada per la teoria del dominio diviso poi fatta propria da Pillio da Modena.

Nuova figura di giurista. Oltre al successo di Modena come scuola minore, c’è da registrare il fatto che i giuristi cominciarono a interessarsi di consuetudini locali e degli statuti cioè gli iura propria che si affermavano nel fenomeno comunale. Si cominciava a creare quindi un coordinamento tra normative particolari vigenti e diritto romano insegnato (tutto tranne Istituzioni riscoperte nel 1816)diventando a mano a mano quest’ultimo diritto sussidiario mettendo le basi per l’epoca del Diritto Comune. Gli statuti locali quindi entrano nelle scuole, smantellando l’idea irneriana di matrice costantiniana che le consuetudini dopo la lex regia non potessero più vincere, addirittura oramai ribaltandosi il rapporto in questo momento: consuetudine sopra alla legge. La consuetudine locale in particolare appariva come species di fronte al genus legge potendo quindi derogarvi localmente in virtù della regola che species deroga il genus, a condizione che la consuetudine fosse espressione di una volontà del popolo non viziata da ignoranza o errore, quindi il popolo doveva conoscere la legge contraria alla consuetudine.

Bologna risente delle scuole minori. La grande città sentì l’importanza che le scuole minori stavano lasciando e di conseguenza stava cambiando. In particolare Azzone fu colpito dal genere della summa che tentò di redigerne una persino dell’impervio Digesto. L’opera riuscì a metà ad Azzone e fu poi proseguita da Ugolino ma il risultato finale fu comunque incompleto sebbene fosse stato stampato ciò insieme alle altre summae azzoniane e il genere della summa venne di moda a Bologna. La scuola bolognese conservò tuttavia nella prima metà del Duecento anche la propria tradizione di tempo della glossa e ne celebrò il rito con le grandi imprese di Azzone e di Accursio. La glossa a Bologna era vista come opera continuativa legata al succedersi degli insegnamenti e appariva come un grande albero a cui ciascun maestro poteva aggiungere o toglier rami ma il tronco passava comunque le generazioni. Accursio continuò l’opera di Azzone e a lui andò la gloria di aver messo insieme 97mila glosse corredando l’intero Corpus iuris dell’apparato definito come la magna glossa o “glossa ordinaria” che cominciò dal 200 ad accompagnare il testo giustinianeo questo modo il diritto diventa naturale veicolo che faceva scendere la giustizia dalle vette etiche delle virtù cardinali sul terreno concreto delle attività dell’uomo cittadino.

Ratio delle leggi. Essa fu definita da Bassiano che fece partire il discorso dalla causa dell’obbligazione: egli era partito dal presupposto che l’ufficio principale della causa è di agganciare gli atti umani all’ordinamento e constatò che fin’ora erano state affrontate duplici cause (civili e naturali) di cui fra l’altro non si sentì più parlare. Egli allora evocò in una glossa la causa finalis come la molla che faceva scattare la volontà negoziale e quindi stava all’origine del rapporto. Quindi lo scopo da cui il soggetto era determinato ad agire. Questo discorso nasce da Aristotele e dalla sua teoria delle 4 cause, le due statiche ( materiale e formale) e le due dinamiche (efficiente e finale). Quindi la causa finalis aveva la caratteristica di esser la previsione mentale di un evento a venire (causa de futuro) il che contrastava con l’idea che la causa deve sempre seguire al causato e inoltre la previsione era soggettiva quindi ogni individuo poteva proporsi cause finali a piacimento a seconda dei propri desideri. I glossatori si videro allora obbligati a staccare la causa finale dal mondo psicologico individuale per farne uno scopo previsto in astratto dal diritto e dal diritto offerto al soggetto agente perchè se ne servisse. Causa e ratio convergevano all’interno della speculazione retorica e nel Corpus iuris i giuristi le vedevano accostate: quindi la causa finalis diventa causa legis e questa finiva a rappresentare la ratio legis.

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