I concilia plebis prendono anche il nome di tributa, in quanto dal 471 la plebe era solita riunirsi e votare ordinata in tribù. Si pensa che prima di allora i plebei fossero stati per un determinato periodo di tempo ordinati nelle assemblee curiatim. Questo tipo di organizzazione avrebbe, in un certo senso, agevolato i patrizi che, tramite i plebei poveri loro dipendenti, avevano tentato di influenzare dall’interno le decisioni e sabotare le decisioni più importanti dell’azione politica.

Per questo motivo, successivamente, venne formalizzata una nuova disciplina di elezione dei tribuni, ottenendo che questa avvenisse da allora in poi in assemblee alle quali i plebei partecipassero ordinati sulla base delle tribù territoriali a cui erano iscritti.

In questo modo, il potere di scelta venne attribuito ai tribules, intesi come quei plebei che, per essere iscritti alle tribù, dovevano avervi la sede e il fondo e godevano, dunque, di una autosufficienza economica e di una autonomia politica reale. Veniva cos’ a crearsi una nuova aristocrazia, non più patrizia, caratterizzata dell’affermarsi di numerose elites plebee, che tolse, in un certo senso, alle assemblee plebee, quella carica democratica che da sempre le aveva contraddistinte.

La capacità di convocare i concilia, nonostante i cambiamenti strutturali che avvennero all’interno della plebe stessa, restò ai tribuni e agli edili plebei. Un’unica eccezione avvenne quando questi furono presieduti dal pontifex maximus. La natura delle deliberazioni adottate nei concili plebei era ben diversa da quella delle decisioni prese dal popolo nel suo momento comiziale.

Il populus, infatti, aveva il potere di iubere, di ordinare e le sue decisioni vincolavano tutti. La plebe, invece, poteva solo stabilire ma non vincolare. Solo successivamente, nella tarda repubblica, essi assunsero un carattere legislativo. Alle origini, dunque, i plebiscita erano privi di una qualsiasi efficacia giuridica, di ogni valore legale per l’intera comunità. La loro autorità, dunque, manteneva soltanto una valenza politica.

Con la legge Publilia, secondo tanti,le deliberazioni conciliari hanno assunto un valore vincolante per l’intero popolo; secondo altri, invece, il fatto che dopo l’approvazione, dovessero essere sottoposte all’auctoritas dei patres, farebbe perdere loro questo carattere vincolante. Pare, inoltre, che l’auctoritas preventiva dei patres fosse necessaria per i plebisciti almeno per tutto il III secolo.

C’è poi chi nega autorevolmente che l’auctoritas patrum sia mai stata necessaria per i plebisciti e congettura che la legge Publilia abbia equiparato questi ultimi non alle leggi centuriate ma alle rogazioni magistratuali.

Il provvedimento del 339 avrebbe fatto si che i plebei potessero esigere che le deliberazioni prese nei propri concili fossero sottoposte all’approvazione dei comizi centuriati, dai magistrati titolari dello ius agendi cum populo e trasformate, di conseguenza, in vere e proprie leggi.

Successivamente, gran parte della produzione normativa corrente si trasferì nei concilia plebis. Questo per una serie di svariate motivazioni:

– Per la loro semplicità nel convocarsi e deliberare

– Per i crescenti impegni militari dei consoli

– Per la mancanza di grossi ostacoli religiosi

I concilia plebis assunsero così una funzione legislativa, in ambito privatistico, processuale, i cui istituti furono, di conseguenza, aggiornati e riformati. Per quanto riguarda le funzioni elettorali, i concili continuarono naturalmente ad eleggere i tribuni e gli edili plebei; inoltre, una certa competenza giurisdizionale fu loro attribuita in materia criminale per i giudizi promossi dai magistrati plebei per crimini passibili di multae dictio.

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