Nella teoria del reato si fa riferimento in particolare ai limiti del potere punitivo, che si esplica in diversi principi in virtù dei quali si limita il campo dell’intervento penale:

  • protezione di beni giuridici
  • principio di frammentarietà
  • principio di sussidiarietà.

i) c’è chi dice che in realtà tutto l’ordinamento è volto a tutelare beni giuridici, ma qui bisogna considerare che l’esistenza di beni giuridici da tutelare è una condizione necessaria per la legittimità della protezione penale, e costituisce un primo criterio di lettura anche delle previsioni di non punibilità laddove la tutela penale possa svincolarsi dal limite di una tutela di b.g. e anticipare la tutela.

ii) Il principio di frammentarietà, ossia il principio della minima offensività, legittima il ricorso alla pena solo per la tutela di beni di particolare rilievo, solo per attacchi rilevanti a beni importanti (non rileva qui l’interesse a una tutela preventiva, che solleciterebbe l’intervento penale in ragione della frequenza degli attacchi, più che della qualità).

iii) Il principio della sussidiarietà legittima l’intervento penale solo quando non esistano altri mezzi meno lesivi. Si rinviene qui un carattere fortemente utilitaristico, perché risponde a un giudizio di efficienza: prima di addivenire allo strumento (estremo e ultimo) della pena, dovrà farsi un bilanciamento tra costi e benefici, e solo quando i mezzi meno lesivi sono anche quelli meno efficaci, si potrà ricorrere all’intervento penale.

Nella bilancia andrà inserito non solo l’ago dell’efficacia, ma anche quello della protezione di altri beni giuridici dell’autore che sarebbero offesi: se la sanzione penale fosse troppo pesante da sopportare, sicuramente si dovrà preferire un altro strumento non penale.

Il principio di sussidiarietà presenta quindi due ambiti di azione, uno esterno e uno interno.

L’ambito esterno vede il diritto penale intervenire solo quando gli altri strumenti di controllo sociale falliscono.

L’ambito interno invece vede il diritto penale possedere diversi strumenti per raggiungere i suoi fini, e al suo interno si stabilisce un ordine di preferenza tra le diverse sanzioni, e si potrà ricorrere alle sanzioni più gravi solo quando quelle più lievi risultino inefficaci (in questo senso la detenzione è sussidiaria rispetto alla multa).

Il principio di sussidiarietà viene applicato anche quando il ricorso alla pena non è necessario perché il suo scopo è stato raggiunto con mezzi che non sono ricondotti né all’azione dei soggetti implicati, né agli altri sistemi di controllo: è il caso della pena naturale, quando la condotta illecita causi gravi conseguenze all’autore, e che annulla la necessità della pena per assicurare la fiducia dei cittadini nella validità della norma.

Il principio di sussidiarietà è il fondamento comune di tutti gli istituti della (non) punibilità. Ma è sufficiente a fondare da solo il principio della punibilità come quarto elemento, e quindi come categoria autonoma del reato nella teoria del reato? VEDIAMO!!!

Innanzi tutto è necessario indagare il ruolo del principio di sussidiarietà nelle diverse teorie giustificatrici del reato (e della pena), in funzione dei fini della pena.

1) Nelle teorie retribuzioniste abbiamo una immagine statica del reato rivolta al passato, al momento della realizzazione del fatto. In una concezione assoluta come questa, il principio di sussidiarietà (che porta inevitabilmente con sé valori utilitaristici) non ha spazio: la pena è compensazione dell’illecito, sempre e a priori. La pena è conseguenza logica e inevitabile.

2) Nelle teorie relative e miste invece, abbiamo una configurazione dinamica del reato, in cui la pena è volta al futuro.

3) Nelle teorie special-preventive si richiede che vi sia il pericolo di recidiva dell’autore, per cui per punire l’autore è necessario compiere delle valutazioni non solo sulla sussistenza del fatto di reato, ma anche sulla pericolosità dell’agente.

4) Nelle teorie general-preventive negative (intimidatoria) si valuta se la non punizione possa condurre altri potenziali delinquenti a ripetere il reato o se si debba affermare che la violazione della norma non susciti tale tentazione (es. il caso del reato scoperto dopo trent’anni).

5) Nelle teorie general-preventive positive non basta la violazione per ricorrere alla pena, al fine di conservare la norma come orientamento nelle relazioni sociali, in quanto la pena non costituisce l’unico strumento che può assicurare la validità della norma, ma esistono altre vie per annullare la violazione di un precetto.

Infatti la pena non segue tutte le violazioni della norma, e non interviene in diverse situazioni: quando non si può attribuire all’autore la capacità di togliere autorità alla norma; a un atto compiuto in presenza di una causa giustificatrice; quando esistono altre possibilità di reazione.

Quindi le teorie retributive/ assolute sono volte al passato, e si limitano a contemplare gli elementi costitutivi presenti al momento della commissione del fatto. Il processo penale ha una funzione dichiarativa, che si limita a constatare il fatto su cui si formula un giudizio sul passato.

Il momento costitutivo della pena per una teoria basata esclusivamente sulla retribuzione è quello della violazione della norma.

Nelle teorie relative invece si tende a un processo di carattere costitutivo, in cui si evince la relazione tra teoria del reato e teoria della pena, attribuendo alla pena fini preventivi e volgendo l’esito del giudizio al futuro: il diritto penale si può realizzare solo attraverso il processo, ed è logico quindi fissare in quel momento il momento costitutivo del reato, (e non nel momento della violazione).

È quindi nel processo che si deve analizzare se la pena è necessaria per evitare reati in futuro.

Una parte della dottrina proprio per questa ragione, distingue tra c.e.p. e c.n.p.s. in ragione del dato cronologico, ossia valutando se le circostanze/cause fossero presenti già al tempo della violazione della norma, o successivamente ad esso.

Nella prospettiva retribuzionista invece al reato deve seguire la pena come necessità logica, la cui misura è già stabilita dall’illecito colpevole, e perciò non c’è spazio per nessun altro momento valutativo di ulteriori condizioni/circostanze che siano in grado di cambiare l’esito statico del paradigma violazione-sanzione.

Le teorie che attribuiscono alla pena fini preventivi, esigono che si dia spazio nella teoria del reato a fattori diversi da quelli racchiusi nella violazione della norma, che da soli risulterebbero del tutto insufficienti per soddisfare la prevenzione.

La connessione tra principio di sussidiarietà e fini preventivi viene in rilievo se si pone la questione del perché a fronte della violazione della norma il ricorso alla pena possa risultare a volte superfluo: in effetti, se la pena si giustifica per la sua utilità, il conseguimento del fine preventivo attraverso la pena non è utile quando si possa conseguire per altre vie meno costose.

Questo avviene quando l’autore evita la lesione o messa in pericolo del b.g., o ripara il danno causato: l’agente annulla la violazione della norma per mezzo di una condotta di segno contrario, il cui effetto è la conservazione del bene, o una protezione sufficiente al bene tutelato tramite strumenti meno costosi della pena.

In definitiva, il principio di sussidiarietà ha per oggetto l’accertamento se non esistano vie alternative e meno costose per il soddisfacimento degli scopi preventivi della pena, o se, in assenza di vie alternative, il successo dei fini preventivi produca costi addizionali che fanno della pena uno strumento più dannoso che utile.

È così dimostrato l’apporto necessario del principio di sussidiarietà nelle teorie relative del reato (le uniche ammissibili).

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