Gli eventi francesi e la dottrina politica rivoluzionaria furono criticati innanzitutto da Burke che contesta il concetto stesso di rivoluzione adottato in Francia. Egli sostiene che la rivoluzione vera è quella fatta in America dove non si pretendeva di creare una costituzione dal nulla ma di preservare la tradizione e l’antica costituzione dal controllo del legislatore inglese. Per Burke quindi la rivoluzione è qualcosa che serve a dare certezza e garanzia e la costituzione deve essere il frutto di un impegno, di un patto o contratto tra gli individui che si materializza in un progressivo consolidarsi di una condizione di equilibrio tra gli interessi sociali. Non è, invece, un progetto nuovo che non da garanzia alcuna di stabilità. La rivoluzione francese, poi, ha messo a repentaglio i diritti degli uomini perché aveva posto il potere nelle mani di un assemblea che lo esercitava in maniera dispotica intendendo il proprio potere di normazione come qualcosa di indefinito e illimitato. Burke sostiene che l’esempio da imitare è ancora una volta quello inglese in cui l’autorità legislativa ha sempre un limite, deve sempre agire per il bene dei cittadini e aggiunge che se i francesi hanno pensato di poter esercitare il potere costituente mettendo a repentaglio i diritti di ognuno è perché hanno messo in discussione l’autorità politica. Essi hanno ecceduto nel contrattualismo cioè hanno ritenuto che alla base dell’autorità politica vi fosse un accordo societario simile a quello che si stipula per il commercio di una qualsiasi merce. La costituzione inglese, quindi, è la migliore perché garantisce a pieno i diritti e perché pone a fondamento dell’autorità politica la storia.

Per Burke dunque i francesi hanno commesso l’errore di seguire Rousseau dimenticando Montesquieau. Tuttavia, è evidente che Burke ragionava partendo da presupposti di stampo costituzionalistico.

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