Il giudizio amministrativo viene normalmente definito da una sentenza (art. 33 lett. a), deliberata dal collegio giudicante. Il termine sentenza, riservato alla pronuncia che definisce in tutto o in parte il giudizio , ha una portata analoga a quella riscontrabile nel codice di procedura civile, dove sentenza è anche la pronuncia del giudice su questioni pregiudiziali attinenti al processo (escluse le questioni di competenza) o su questioni preliminari di merito, anche se non definisce il giudizio. Con riferimento alle sentenze si è soliti distinguere tra:

  • sentenze di rito (art. 35), che comprendono:
    • le pronunce di irricevibilità, configurate nel caso di tardività della notifica o del deposito del ricorso;
    • le pronunce di inammissibilità, per motivi che possono essere configurati già al momento dell’introduzione del giudizio (es. carenza di interesse);
    • le pronunce di improcedibilità, per situazioni maturate dopo l’introduzione del giudice (es. sopravvenuta carenza di interesse);
    • le pronunce che dichiarino l’estinzione del giudizio (es. tardività della riassunzione).

In questi ultimi due casi alla relativa declaratoria può provvedere il Presidente con un decreto (art. 33 lett. c). Tale decreto, comunque, se non viene opposto, passa in giudicato e definisce il giudizio esattamente come la sentenza. Qualora negli stessi casi la controversia sia già all’esame del collegio, invece, alla pronuncia deve provvedere il medesimo collegio con una sentenza di rito;

  • sentenze di merito, che intervengono sul contenuto della domanda, accogliendola o dichiarandola infondata. Nel caso di accoglimento del ricorso (art. 34), le sentenze possono avere un contenuto dispositivo diverso in relazione alle domande proposte:
    • possono annullare il provvedimento impugnato, oppure riformarlo o sostituirlo;
    • possono ordinare all’amministrazione inerte di provvedere entro un certo termine nel caso di un giudizio sul silenzio-rifiuto;
    • possono condannare l’amministrazione a pagare una somma di denaro, oppure ad adottare una qualsiasi pronuncia contemplata nel codice. A proposito di tale pronuncia di condanna, si stabilisce che essa possa riguardare l’adozione delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio.

Tra le sentenze di merito, peraltro, rientrano anche le sentenze che dichiarano la cessazione della materia del contenere (co. 5), che si verifica quando nel corso del giudizio la pretesa del ricorrente risulti pienamente soddisfatta.

Nel caso di declinatoria di giurisdizione, il giudice deve indicare nella sentenza quale sia il giudice dotato di giurisdizione (art. 11 co. 1). Se la parte ripropone la sua domanda davanti al giudice indicato entro tre mesi dal passaggio in giudicato della sentenza declinatoria, sono fatti salvi gli effetti sostanziali e processuali della domanda presentata avanti al Tar (co. 2), e questo in forza del principio della traslatio iudicii. Se la domanda viene riproposta tempestivamente:

  • non assumono rilievo eventuali decadenze che possano essere maturate dopo tale domanda. Le eventuali decadenze maturate prima di tale domanda, al contrario, restano ferme, fatta salva la possibilità per il secondo giudice di valutare se ricorrono le condizioni per concedere alla parte la rimessione in termini per errore scusabile (co. 5);
  • le prove eventualmente raccolte dal primo giudice possono essere valutate come argomento di prova dal secondo giudice (co. 6);
  • le misure cautelari concesse dal primo giudice conservano la loro efficacia per trenta giorni dopo la pubblicazione del provvedimento che dichiara il difetto di giurisdizione del giudice che le ha emanate (co. 7).

Dopo la declinatoria di giurisdizione del Tar, il secondo giudice, adito tempestivamente dalla parte, se ritiene a sua volta di essere privo di giurisdizione, nella prima udienza può sollevare di ufficio conflitto di giurisdizione (co. 3), sul quale si pronuncerà la Corte di cassazione (co. 4).

In coerenza con il principio della domanda, il giudice amministrativo è tenuto a pronunciarsi su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa (art. 112 c.p.c.). Nell’esame della domanda deve tener conto del vincolo di pregiudizialità che può sussistere tra le varie questioni rilevanti per la decisione, con la conseguenza che la decisione su questioni pregiudiziali può definire il giudizio. Un fenomeno diverso da quello della pregiudizialità è quello dell’assorbimento, che si verifica quando le questioni sollevate, pur non essendo collegate tra loro secondo una relazione di pregiudizialità in senso tecnico, seguono un preciso ordine logico che il giudice deve seguire ai fini della decisione. A differenza di parte della dottrina, la giurisprudenza (sent. n. 2143 del 2009 del Consiglio di Stato) ritiene che l’ordine cronologico sia stabilito unicamente dal giudice, non potendo la parte articolare la domanda nel modo ad essa più conveniente. Il giudice amministrativo, comunque, dispone frequentemente l’assorbimento dei motivi di ricorso anche sulla base di criteri di mera opportunità pratica (es. in presenza di varie censure il giudice si limita ad esaminare quella di più facile verificazione, se da essa consegue l’annullamento del provvedimento impugnato). Tale assorbimento improprio, tuttavia, determinando una pronuncia sostanzialmente incompleta, viene particolarmente criticato. Il principio della domanda stabilisce anche che nella sentenza il giudice non può pronunciarsi di ufficio su eccezioni che possono essere proposte soltanto dalle parti. Nel processo amministrativo, tuttavia, si dubita della configurabilità di eccezioni processuali riservate alle parti, potendo il giudice amministrativo accertare sempre di ufficio la nullità di un provvedimento (art. 31 co. 4).

Un esempio di sentenza apparentemente parziale (violatrice del principio della domanda) è prevista dall’art. 34 co. 4 per le controversie relative ad obbligazioni pecuniarie: il giudice amministrativo, quando accoglie la domanda di condanna pecuniaria, se nessuna delle parti gli richiede in modo espresso di provvedere direttamente alla liquidazione, può limitarsi a fissare nella sentenza i criteri per la liquidazione dell’importo dovuto. In questo caso, entro un termine fissato nella sentenza la parte debitrice ha l’onere di formulare una proposta di pagamento. Se tale proposta non avviene, se essa non viene accolta o se essa sia stata accolta ma il debitore non abbia adempiuto, la liquidazione può essere richiesta dalla parte creditrice nelle forme previste per il giudizio di ottemperanza.

La sentenza deve essere sottoscritta dal presidente del collegio giudicante e dall’estensore e viene depositata, unitamente al dispositivo, presso la segreteria del Tar. Il deposito comporta la pubblicazione della sentenza e di esso deve essere data comunicazione alle parti, dato che da tale momento la sentenza produce i suoi effetti e decorre il termine lungo (ordinario) per l’eventuale impugnazione. La notifica della sentenza, invece, determina la decorrente del termine breve per l’eventuale impugnazione.

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