I dipartimenti, le direzioni generali e gli uffici di collaborazione

Nel quadro legislativo definito dal d.lgs. 300/99, i ministeri sono divisi in due gruppi: in quelli del primo gruppo (interni; giustizia; economia; lavoro e politiche sociali; istruzione, università e ricerca; salute) le strutture di primo livello sono rappresentate dai dipartimenti (i quali abbracciano grandi aree di materie).

Nei ministeri del secondo gruppo (tutti gli altri) le strutture di primo livello sono, invece, rappresentate dalle direzioni generali (con ambiti più ridotti rispetto ai dipartimenti); tali direzioni generali, in particolare, sono coordinate da un segretario generale (figura non prevista nei ministeri a struttura dipartimentale).

Affianco ai dipartimenti e alle direzioni generali operano, poi, gli uffici di diretta collaborazione con il ministro, i quali sono legati all’ organo politico da un rapporto fiduciario (tra di essi ricordiamo: l’ ufficio legislativo e l’ ufficio di gabinetto). Questi uffici, però, si distinguono dagli uffici burocratici, perché non sono organizzati secondo un disegno gerarchico, ma sono collocati in posizione di staff, ossia in una posizione collaterale al vertice politico, con il quale hanno un contatto diretto (a prescindere dalla gerarchia).

L’ organizzazione periferica

Molti ministeri, accanto ad un apparato centrale, presentano anche un apparato periferico, che fa capo ad un ufficio organo (si pensi, ad es., al prefetto, che fa capo al Ministero dell’ Interno; al provveditore agli studi, che fa capo al Ministero della Pubblica Istruzione; all’ intendenza di finanza, che fa capo al Ministero delle Finanze, etc.). A tali uffici periferici (sempre, o quasi sempre, di dimensione provinciale) è stata riconosciuta una parziale soggettività giuridica (negata, questa, per oltre un secolo, alle direzioni generali dei ministeri); ciò si spiega in considerazione del fatto che, se così non fosse stato, anche, ad es., il prefetto, il provveditore agli studi o l’ intendente di finanza (cioè, l’ apparato periferico) avrebbe dovuto sottoporre i suoi atti alla firma del ministro e sarebbe, di conseguenza, venuta meno la stessa utilità di un’ organizzazione periferica dello Stato.

È necessario sottolineare, però, che con l’ istituzione delle regioni (1970), l’ organizzazione periferica dello Stato ha perso, ovviamente nei settori regionalizzati (agricoltura, turismo e, in parte, lavori pubblici) una parte dei suoi spazi; con la riforma del 1999 è stato, poi, attuato un ulteriore snellimento delle strutture periferiche: alcune sono state fatte salve (difesa, economia e finanze, beni culturali), mentre le altre sono state concentrate nelle prefetture (denominate, oggi, uffici territoriali di governo).

La responsabilità ministeriale

L’ art. 95, co. 2 Cost., affermando che i ministri (nei confronti del Parlamento) sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei ministri e individualmente degli atti dei loro dicasteri, concorre, almeno in parte, a definire il rapporto tra il ministro e la burocrazia ministeriale (e, in primo luogo, i dirigenti). Ora, questa formula (che afferma la responsabilità del ministro per gli atti del suo dicastero) è stata interpretata, anche prima della sua costituzionalizzazione, nel senso che tutti gli atti del ministero fossero giuridicamente imputabili al ministro (anche se non posti in essere dallo stesso); si trattava, però, di un’ evidente esagerazione che, come già affermava il Presidente del Consiglio Bettino Ricasoli nel 1866 (quindi, sin dalle origini dell’ Italia unita), eliminava di fatto la responsabilità dei dirigenti (mettendo, così, in discussione il buon andamento dell’ amministrazione stessa).

La questione del rapporto tra ministro e dirigente non si esaurisce, però, nell’ art. 95, ma è presa in considerazione anche dagli artt. 28 e 97 Cost.

In particolare, l’ art. 97, come sappiamo, dopo aver enunciato i princìpi di buon andamento e di imparzialità dell’ amministrazione, prescrive che nell’ ordinamento degli uffici siano determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari. Ora, poiché l’ inciso proprie è riferito sia alla responsabilità che alla competenza, se ne deduce che la competenza non può essere limitata al ministro, ma deve essere estesa anche ai dirigenti, i quali sono chiamati a rispondere degli atti compiuti nell’ esercizio di tale competenza, senza che possano trincerarsi dietro la responsabilità ministeriale (in tal senso: Merloni).

Che i funzionari (e, quindi, anche i dirigenti) rispondano direttamente dei propri atti, compiuti in violazione dei diritti, risulta poi confermato dall’ art. 28 Cost.: ne rispondono secondo le leggi penali, civili e amministrative; viceversa, i ministri (ex art. 95 Cost.) rispondono politicamente degli atti dei loro dicasteri (e quindi, anche di quelli posti in essere dai dirigenti).

In definitiva, le tre disposizioni su analizzate (artt. 95, 97 e 28 Cost.) compongono, come si può notare, un quadro in cui la responsabilità politica del ministro (per gli atti del suo dicastero) convive con la responsabilità diretta del dirigente (che è titolare di una sua sfera di competenza) e forniscono anche un criterio per distinguere il contenuto di tale responsabilità: una responsabilità politica del ministro ed una responsabilità civile, penale e amministrativa del dirigente (della quale, però, è bene precisarlo, è tenuto a rispondere anche il ministro, essendo egli stesso funzionario e, quindi, destinatario dei precetti contenuti negli artt. 28 e 97 Cost.).

I ministri e i dirigenti

Il D.P.R. 748/72 (cd. decreto sulla dirigenza), staccando – dalla carriera direttiva del personale statale – la carriera dirigenziale (articolata nelle tre qualifiche di dirigente generale, dirigente superiore e primo dirigente) aveva attribuito ai dirigenti competenze proprie (in tal modo, i dirigenti, dopo essere stati per lungo tempo titolari di meri uffici, diventavano organi dell’ amministrazione).

Si trattava, in particolare, di competenze dirette ad adottare atti che impegnavano l’ amministrazione verso l’ esterno (il cui valore monetario era comunque inferiore ad una certa soglia e la cui natura era vincolata); in capo al ministro veniva, invece, mantenuta la competenza ad adottare gli atti più rilevanti e a sindacare l’ operato dei dirigenti mediante poteri di intervento sui loro atti (revoca, riforma, annullamento) o sulle loro competenze (avocazione e riserva preventiva di atti).

Le cose, però, sono successivamente cambiate: infatti, con i d.lgs. 29/93 e 165/01, è stato enunciato un nuovo criterio di riparto delle competenze tra gli organi di governo e i dirigenti (cd. riparto funzionale). In questa prospettiva, gli organi di governo sono oggi chiamati a definire gli obiettivi e i programmi da attuare e verificano la rispondenza dei risultati della gestione amministrativa alle direttive generali impartite; ai dirigenti, invece, spetta la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa (compresi gli atti che impegnano l’ amministrazione verso l’ esterno) mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse, umane e strumentali, e di controllo.

Il riparto delle competenze tra organi di governo e dirigenti è reso, poi, ancora più netto dal divieto, per l’ organo politico (il ministro), di revocare o avocare a sé atti di competenza dei dirigenti: in caso di inerzia o ritardo, infatti, l’ organo politico può fissare al dirigente un termine entro il quale provvedere e, se l’ inerzia persiste, può nominare un commissario ad acta.

Tuttavia, è necessario sottolineare che se, da un lato, l’organo politico (il ministro) ha perso la possibilità di intervenire sugli atti del dirigente (revoca, annullamento, modifica, avocazione etc.), dall’ altro lato ha mantenuto (anzi, ha rafforzato) i propri poteri sul piano dell’ investitura: infatti, a differenza del rapporto di lavoro privato, in cui il possesso di una qualifica lavorativa comporta il diritto di esercitare le relative mansioni (ex art. 2103 c.c.), alla qualifica dirigenziale si accede mediante concorso; l’ incarico di funzioni dirigenziali viene, però, conferito dall’ organo politico (sicché da tale incarico dipende lo svolgimento delle mansioni proprie del dirigente). L’ incarico di funzioni dirigenziali ha una durata limitata nel tempo (da un minimo di 3 anni ad un massimo di 5) ed è rinnovabile: ovviamente, la temporaneità dell’ incarico si spiega in funzione del controllo sull’ operato del dirigente da parte dell’ organo politico (così, ad es., se il dirigente non ha raggiunto gli obiettivi che gli sono stati prefissati, l’ incarico non può essere rinnovato).

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