Il tema dell’autotutela rappresenta un punto di vista fondamentale per la comprensione del fenomeno amministrativo.

Finchè si parla di autonomia, si parla di un tipo di attività che è nella sua materialità, simile a quello che possono esercitare i privati e che di fatto esercitano quando dettano condizioni generali di contratto cui, chi voglia entrare in rapporto, deve aderire. E quando si parla si autarchia a maggior ragione di parla di attività che viene svolta per soddisfare gli interessi pubblici perseguiti dall’autore dell’atto.

Ma il tema dell’autotutela trova poche corrispondenze nel caso delle attività dei privati e precisamente solo nei casi in cui al privato è consentito di farsi giustizia da sé come nelle ipotesi di incameramento di cauzioni o nelle ipotesi di esercizio di poteri disciplinari, ma anche in tutti questi casi la fonte del potere di autotutela privato va sempre ritrovata nel consenso contrattuale della controparte.

Prima della grande evoluzione in un atto che vede l’associazione dei cittadini allo svolgimento delle funzioni pubbliche, mediante il procedimento, era l’amministrazione che provvedeva unilateralmente alla definizione delle posizioni comprese nel suo rapporto con i cittadini.

Oggi invece nei casi in cui l’esercizio della funzione si conclude con un accordo, si verifica qualche cosa di simile alla vicenda contrattuale.

Poiché l’accordo implica accettazione della sistemazione del rapporto tra amministrazione e cittadino, sotto un profilo pratico, è come se vi fosse un apparato contrattuale di accettazione da parte del cittadino della sistemazione della proprie posizioni giuridiche nei confronti di un rapporto contrattuale di diritto privato.

Non sempre però l’autotutela ha come presupposto un accordo: in questi casi essa non ha bisogno di una nuova e ulteriore dichiarazione della loro validità, né di una sentenza dell’autorità giudiziaria. Essa cioè non ha bisogno di ricorrere ad un nuovo atto giuridico (sentenza o decisione) per ottenere il potere di soddisfacimento del proprio interesse mediante il previo riconoscimento della giustizia della propria pretesa ed il conseguente obbligo per il cittadino di sottostarvi.

Quel riconoscimento e quell’ordine sono impliciti nell’atto amministrativo, il quale appunto perciò si dice che è presunto legittimo e che è esecutorio.

Queste due caratteristiche (presunzione di legittimità e l’esecutorietà) non sono però qualità dell’atto ma solamente attributi che gli derivano di riflesso per effetto della capacità che è riconosciuta alla PA di realizzare il precetto che essa ha reso concreto nel proprio atto, senza previa pronuncia.

Non esiste una norma generale che riconosca questo potere dell’amministrazione di eseguire coattivamente i propri atti ma il principio viene dedotto, da un lato dalla esistenza di norme singolari dettate cioè per singoli casi; è dall’altro dall’azione cautelare attribuita ai cittadini in sede di ricorso giudiziale amministrativo per ottenere la sospensione dell’esecuzione dell’atto impugnato: dal che si deduce che senza l’ordine del giudice che lo sospenda, l’atto produce immediatamente i propri effetti e può essere portato ad esecuzione.

L’autotutela esecutiva non è soltanto una forma di assicurazione dell’autotutela decisoria che entri in funzione quante volte quest’ultima non riesca da sola a soddisfare materialmente l’interesse perseguito dall’amministrazione, ma costituisce una forma a sé stante di autotutela intesa a consentire la realizzazione materiale degli atti provvedimentali dell’amministrazione sia che essi si concretino in atti di autonomia o di autarchia, sia che essi di concretino in atti di autotutela decisoria.

Perché però tale attività di esecuzione possa essere considerata come appartenente al campo dell’autotutela è necessario che si verifichi il comune presupposto di questa, che cioè l’attuazione materiale avvenga sulla base di un conflitto e quindi la volontà dell’interessato, si esprima essa in un comportamento attivo o soltanto passivo.

Proprio tenendo conto di questa condizione la dottrina qualifica l’autotutela esecutiva come esecuzione forzata amministrativa, formula che può essere accettata se con essa si voglia esprimere non tanto la necessità dell’impiego della forza quando la formosità dell’esecuzione, mentre l’impiego della forza rimane un’eventualità per l’ipotesi che sia necessario superare una resistenza attiva e non soltanto passiva dell’interessato.

È ovvio però che in ogni caso sia che si debba sia che non si debba far ricordo alla forza, tale eventualità caratterizza l’intensità dell’autotutela esecutiva e la fa apparire come una capacità eccezionale in un sistema in cui l’uso della forza per la soddisfazione delle proprie pretese è penalmente sanzionato ed è preordinato un processo con tutte le relative garanzia per i casi in cui un’esecuzione forzata debba avvenire in via giudiziaria.

Occorre indicare i vari tipi di esecuzione coattiva a seconda che essa assicuri direttamente la soddisfazione dell’interesse violato o ne assicuri la soddisfazione per equivalente.

Nella prima ipotesi si può parlare di esecuzione diretta. Essa può essere personale quante volte l’amministrazione agisca direttamente sui cittadini per costringerli ad un determinato comportamento.

L’autotutela esecutiva diretta è normalmente reale nel senso che essa si esercita sulle cose che tenda al loro apprendimento o ad una loro modificazione.

A sua volta essa può però avvenire:

  • in via immediata, quando l’apprendimento della cosa e la sua eventuale trasformazione formino lo stesso oggetto dell’attività esecutiva
  • o in via mediata, quando per l’apprendimento della cosa che soddisfa l’interesse leso occorra servirsi di altra cosa.

Si è in presenza di ipotesi di autotutela esecutiva indiretta quando l’attività dell’amministrazione assicura la soddisfazione del suo interesse soltanto per equivalente, come avviene allorchè l’amministrazione è consentito di rivalersi coattivamente nei confronti dei cittadini inadempienti delle somme occorse per l’attuazione di un’esecuzione diretta reale e immediata.

Rimane soltanto da ricordate che in tesi generale di fronte all’esecuzione forzata amministrativa, come di fronte ad ogni atti di coazione illecita, spetta al cittadino anche il cosiddetto diritto di resistenza, quando egli ritenga che sia violato un suo diritto nell’ambito di una posizione giuridica indisponibile per l’amministrazione. È ovvio che si è in presenza di un caso limite perché nell’incertezza dello stato di diritto e di fatto, la violazione deve avere carattere macroscopico. Un’applicazione del diritto di resistenza si ha nel caso di ordini illeciti di un superiore gerarchico cui l’inferiore può rifiutare obbedienza precisandone i motivi.

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